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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
07/01/2019
Genesis
The Lamb Lies Down On Broadway
C'è un abisso fra i precedenti lavori della band e questo concept: il suono Genesis si irruvidisce, acquista accenti più marcatamente rock, gli acquarelli della campagna inglese vengono sostituiti con i tratti decisi dei graffiti metropolitani di una New York sotterranea e malevola.

Che Gabriel fosse un istrione e rubasse la scena, sia sul palco che in studio, al resto della band, è un dato di fatto sul quale sono già stati versati litri di inchiostro. L'arcangelo Gabriele, a dispetto dei modi cortesi e di quel sorriso aperto che ispirava immediata simpatia, non era proprio quello che si può definire un tipo accomodante.

La storia dei Genesis è infatti cadenzata dalle sue intuizioni, dalla sua creatività, ma anche dalle sue continue imposizioni, dall'assolutismo delle sue scelte (ad esempio, obbligò Collins a non chiudere le rullate sui piatti), dalla sua indole attoriale che lo portava a ritagliarsi sempre il ruolo di prima donna.

E' per questo che The Lamb Lies Down On Broadway, se da un lato rappresenta l'apoteosi di un percorso musicale che, per molti versi, potremmo definire Gabriel-centrico, dall'altro sarà anche l'ultimo capitolo del cantante di Bath alla guida del quintetto inglese. Gabriel è stufo degli angusti limiti che la band inevitabilmente pone al suo sempre crescente desiderio di sperimentazione, gli altri quattro, invece, sono stanchi di stare al servizio di un padre padrone che impone e dispone, spesso senza nemmeno accettare contradittorio.

Concept album, opera rock a tutto tondo e primo doppio album nella discografia Genesis, The Lamb Lies Down On Broadway non è solo il sesto (e, probabilmente, il miglior) disco in studio della band, ma è soprattutto un ponte artistico fra il passato e il futuro di Gabriel. Una sorta di anteprima di quello che sarà, nel quale l'ambiziosa progettualità sperimentale e il talento narrativo dell'Arcangelo superano per la prima volta le anguste barriere del progressive, gli orpelli e i barocchismi, l'idea ormai consunta di un rock romantico, fine a sé stesso e senza più sbocchi creativi.

The Lamb rappresenta, quindi, una sorta di (sublime e monumentale) canto del cigno del genere, la pietra miliare che segna la fine di un epoca, l'epitaffio che chiude la storia di un movimento che ha già detto tutto e forse anche troppo.

La storia di Rael (Rael = Real = Re Lear), teppista portoricano dei bassifondi newyorchesi che vede l'agnello sdraiarsi su Broadway, è narrativamente (e musicalmente) complessa, a tratti perfino di difficile comprensione, sia per l’andamento disomogeneo della scaletta che per le liriche di Gabriel, abile come di consueto a manipolare la lingua inglese, a suggerire tramite calembour, citazioni colte e metafore, e a stupire l’ascoltatore con un con un timbro vocale sempre più duttile e cangiante.

C'è un abisso fra i precedenti lavori della band e questo concept: il suono Genesis si irruvidisce, acquista accenti più marcatamente rock, gli acquarelli della campagna inglese vengono sostituiti con i tratti decisi dei graffiti metropolitani di una New York sotterranea e malevola. I brani si fanno meno articolati e più stringati, la ritmica finisce spesso in primo piano, le canzoni mordono alla gola, sono aggressive, stanno addosso all'ascoltatore, rimandano a un futuro ancora lontano, ma qui già preconizzato.

Si pensi, ad esempio, al pulsare claustrofobico e ipnotico dell'incipit di In The Cage, con Banks a reiterare un giro di tastiera, che spinge il progressive ai limiti estremi dell'ipotesi elettronica. Si pensi a Back in NYC, che è una sorta di manifesto proto-punk, un gancio per quel futuro che di lì a breve cambierà la storia della musica, partendo proprio dal cuore di New York. Si pensi a tanti intermezzi, nei quali si esplora l'ambient fino ai confini del noise, o alle atmosfere hard-rock di Lilywhite Lilith, embrione prog-metal ante litteram.

Un'opera avanguardista, dunque, che certamente anticipa alcune sonorità del futuro, ma che gioca anche di rimando ai grandi capitoli della passata (e presente) storia della musica popolare. Così Counting Out Time e Anyway ammiccano a sonorità beatlesiane, mentre la conclusiva It omaggia nel testo It's Only Rock And Roll (but i li ke it) degli Stones, uscito poco tempo prima.

E poi, c'è il prog - rock, superato, certo, ma non dimenticato, riproposto in un'accezione più scarna e diretta, e proprio in virtù di questa nuova essenzialità, capace di toccare vette di lirismo fino ad allora mai esplorate. Ne sono esempi clamorosi Carpet Crawl, la title track, e soprattutto, la sofferta e ispiratissima The Lamia, uno dei vertici compositivi dell’album, in cui il pianismo liquido di Banks, lo struggente assolo finale di Hackett e il cantato dolente di Gabriel riescono ad aprire un varco spazio temporale fra le visioni notturne di Debussy ed il rock anni ‘70.

Le liriche, più visionarie che mai, utilizzano una figura mitologica (le lamie, secondo mitologia greca, furono figure femminili in parte umane e in parte animali, rapitrici di bambini o fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne) e giocano con sottintesi sessuali (“con le lingue tastano, assaporano e giudicano tutto il mio essere/ si muovono con una sequela di carezze che fanno rabbrividire la mia spina dorsale/ mentre mordono il frutto della mia carne, non sento dolore, solo una magia alla quale non saprei dare nome”).

Dopo questo disco, ognuno se ne andrà per la sua strada: Gabriel a cercare fortuna con la sua World Music e il suo art-rock avanguardistico, Collins & co. a trascinare stancamente il marchio Genesis tra (pochi) alti (The Trick of the Tail, Duke) e (moltissimi) bassi.