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REVIEWSLE RECENSIONI
04/04/2024
Whispering Sons
The Great Calm
"The Great Calm" è il terzo disco dei Whispering Sons, un richiamo a “qualcosa che tutti cercano ma che forse non esiste, è come un sogno”. Con l'ultimo album il feroce Post Punk degli esordi continua a essere stemperato in una Wave cupa e a tratti magniloquente, con un songwriting decisamente migliorato e degli arrangiamenti curatissimi.

Viviamo in un’epoca in cui il passare del tempo non è più un dato sensibile, perennemente immersi come siamo in un eterno presente, salvo poi celebrare anniversari di qualunque cosa, nell’illusione di recuperare chissà quale dimensione storica e consapevole.

Tutto questo per dire che: l’avreste mai detto che i Whispering Sons esistono già da dieci anni? Io personalmente no e non solo perché non mi sembra passato chissà quanto, dal giorno in cui un mio ex compagno di liceo mi mandò il link del loro primo disco Images, convinto che mi sarebbe piaciuto parecchio (e infatti); l’altra ragione è che nella mia testa il quartetto belga continua ad essere catalogato come una realtà emergente, a paragone di nomi più conosciuti e blasonati.

E invece, tra una cosa e l’altra, sono passati già dieci anni (l’EP Endless Party in realtà è del 2016 ma loro si sono formati due anni prima) e di cose, soprattutto nell’ultimo periodo, ne sono successe parecchie. Innanzitutto è tornato il batterista Sander Pelsmaekers, che aveva lasciato per motivi di salute (un danno al sistema nervoso, a quanto pare) ma che aveva continuato a rimanere nel giro ricoprendo il ruolo di tour manager; è tornato ai Synth però, perché dietro alle pelli era già passato il bassista Tuur Vanderborne, il quale è stato a sua volta sostituito in questo ruolo dall’ex tecnico del suono Bert Vliengen. Una rivoluzione in pieno stile Punk, dunque, quando i gruppi si scambiano allegramente gli strumenti durante i bis.

Va da sé che gli unici rimasti al loro posto sono il chitarrista Kobe Lijnen e la cantante Fenne Kuppens, che sono poi quelli che effettivamente si occupano di scrivere i brani.

 

The Great Calm è il loro terzo disco ed è facile immaginare che il titolo si riferisca al periodo di completamento delle registrazioni quando, dopo le quattro settimane passate all’Audioworkx nei pressi di Eindhoven, si sono costruiti un piccolo studio personale sull’isola di Vlieland, vicino alla costa del mare del Nord. Sia corretta o meno questa supposizione, Kuppens ha dichiarato che la grande calma è “qualcosa che tutti cercano ma che forse non esiste, è come un sogno”.

Di sicuro c’è che la copertina, uno scatto del fotografo Wouter Van de Voorde, che rappresenta l’interno carbonizzato di una macchina, pare essere ben lontana dalle suggestioni evocate dal titolo. Sul contenuto musicale, qualcosa di più forse ci azzecca. Se il singolo “The Talker” aveva spiazzato parecchio, con le sue chitarre saltellanti e il suo piglio brioso, con Fenne Kuppens intenta a fare il verso a Florence Shaw dei Dry Cleaning, il resto dei brani, già dalla successiva anticipazione, “Cold City”, monologo glaciale con l’accompagnamento del piano, pare aver riportato la band sulle coordinate solite.

Che, giusto per intendersi, sono più quelle del precedente Several Others, con il feroce Post Punk degli esordi stemperato in una Wave cupa e a tratti magniloquente. A questo giro sembrano affinare un po’ di più questa ricetta, con un songwriting decisamente migliorato e degli arrangiamenti curatissimi, che privilegiano il gioco di intarsi tra i vari strumenti (Synth e chitarra non avevano mai dialogato così bene prima d’ora) e una gestione da manuale delle strutture e dei crescendi.

Da questo punto di vista, l’opener “Standstill” è un piccolo gioiello di scuola Joy Division, mentre “Dragging” e “Something Good” montano la loro quota di angoscia  a poco a poco, per poi esplodere in un trionfo di rabbia cupa e disperata, guidati da una prova vocale di una Fenne Kuppens mai così a suo agio dietro al microfono.

La band però dà il meglio di sé anche quando rallenta i ritmi e punta tutto sul pianoforte, una formula che regala ballate come “Still, Disappearing” e “Oceanic”, lucidamente angosciose e pregne di un’asetticità imperturbabile.

 

Il loro miglior disco? Ne hanno fatti solo tre ma direi che per il momento è senza dubbio così. Stiamo parlando di una proposta ultra derivativa, per cui le principali obiezioni che un gruppo del genere potrebbe incontrare sono soprattutto queste: c’è ancora bisogno, nel 2024, di qualcuno che suoni questa roba? Evidentemente sì, visto che è un genere che non è mai veramente passato di moda e che negli anni ha assistito a numerosi tentativi di revival e aggiornamento.

Per quanto mi riguarda, e l’ho detto altre volte, fare musica “originale” (con tutte le accezioni che possiamo dare a questo termine) oggi non ha più nessun senso. I Whispering Sons assomigliano a diecimila cose che avete già sentito eppure scrivono canzoni bellissime che suonano, in un loro modo tutto particolare, fresche e attuali. Solo per questo meritano di essere ascoltati.

A maggio torneranno dalle nostre parti e vi assicuro che anche dal vivo meritano parecchio.