I fratelli Ron e Russel Mael, ovvero gli Sparks, stanno sulla cresta dell’onda da più di mezzo secolo, ed è incredibile come, a tutt’oggi, a dispetto di una discografia corposa e avvincente, siano ancora considerati come fenomeno di nicchia. Cinquant’anni di carriera, partita quando i due hanno iniziato a fare musica insieme a Los Angeles, registrando le loro prime canzoni sotto il nome di Halfnelson alla fine degli anni '60. Era il periodo di massimo splendore per quella musica che nasceva sullo Sunset Strip, eppure gli Sparks, autoproclamatisi anglofili, guardavano dall’altra parte dell’oceano, incamerando influenze dai grandi gruppi britannici del momento, fino a quando, dopo cambi di formazione, nel 1973, si trasferirono in Inghilterra, la loro patria musicale putativa, dove firmarono un contratto con la Island Records e presero ufficialmente il nome Sparks.
Nel 1974, quando pubblicarono quel capolavoro innovativo che prende il nome di Kimono My House, i due fratelli arrivarono fino al numero due delle classifiche del Regno Unito con il singolo "This Town Ain't Big Enough For Both Of Us", costruendosi una solida base di fan, e poi, nei decenni che seguirono, animati da un desiderio inesausto di sperimentare, imboccarono diverse strade, immergendosi nella new wave, nel synth pop e nel glam rock, il tutto declinato sempre attraverso la loro peculiare visione bizzarra e aperta alla contaminazione. Sono diventati di moda, e poi scomparsi dai riflettori mediatici, e quindi di nuovo in auge, sono entrati in classifica a intervalli regolari, ma, quel che è certo, non sono mai riusciti a sfondare completamente, troppo raffinati e intelligenti per raggiungere il grande pubblico, ma talmente stimati e seminali, da ispirare generazioni di musicisti.
Su di loro si sono riaccesi i riflettori negli ultimi anni, grazie a un disco imprevedibile e brillante come A Steady Drip, Drip, Drip del 2020, ad Annette (2021), un bizzarro musical acclamato dalla critica, che hanno co-scritto con il regista Leo Carax, e a un documentario, The Sparks Brothers, a loro dedicato dal regista Edgar Wright, che ne ha raccontato l’atipica carriera.
The Girl Is Crying In Her Latte batte, dunque, il ferro finchè è caldo, e vede il duo lanciare sul mercato il ventiseiesimo album in studio, che segna anche il ritorno, dopo ben quarantasette anni, nelle scuderie della Island Records. Un’opera che, nuovamente, coglie il centro del bersaglio, grazie a un concentrato inafferrabile, bizzarro e obliquo di synth pop, dance sbarazzina, partiture orchestrali, melodie ipnotiche, echi anni '80, testi ironici e corrosivi, e quel quid di cialtronesca sfacciataggine che li rende unici. Canzoni che germogliano nel terreno condiviso fra intelligenza e divertimento, un binomio irresistibile.
La title track apre l’album con un andamento ripetitivo, ipnotico, distante, e un ritornello percussivo e scintillante adombrato dalle parole “così tante persone piangono nel loro latte”, un verso che fotografa, meglio di un saggio, il tormento di questi anni bui e il dolore celato agli occhi del mondo di mille e mille solitudini. Una canzone che inizialmente lascia perplessi, ma che, ascolto dopo ascolto, diventa irresistibile, e crea suggestioni, corroborate da un video musicale in cui è protagonista l'attrice Cate Blanchett, che balla vestita di un brillante abito giallo.
"Veronica Lake" è un’ode all’attrice e femme fatale americana, a cui il governo americano chiese di cambiare pettinatura, perché le operaie che la emulavano rimanevano spesso incastrate nei macchinari, e si muove sugli stessi binari della title track: elettronica ipnotica, synth arrangiati anni ’80 e melodia che si manda a memoria in un attimo.
Ironia e sagacia permeano, invece, "Nothing Is Good As They Say It Is", puro europop alla Abba, che racconta le disavventure di un neonato che dopo ventidue ore di vita si è già rotto il cazzo di vivere in un mondo in cui tutto “bruttezza, ansia, finta abbronzatura”.
C’è tutto lo Sparks pensiero in queste quattordici canzoni che passano dall’incalzante incedere di "Mona Lisa's Packing Leaving Late Tonight", all’elettronica robotica di "You Were Meant For Me", dall’ambientazione bucolica di "It’s Sunny Today", posta malinconicamente a metà strada fra Beatles e Devotchka, al pop acustico dal retrogusto sixties di "It Doesn't Have To Be That Way", vertice di un disco ispiratissimo.
In The Girl Is Crying In Her Latte si trova tutto ciò che ha reso gli Sparks una band unica nel suo genere, capace di generare una miscela affabulante tra pop senza tempo, elettronica progressiva, orchestrazioni avvolgenti e una scrittura acida e corrosiva, che fa delle loro liriche uno dei punti di forza della proposta. Una musica, quella del duo, che, nonostante i decenni trascorsi, non mostra nemmeno una ruga, ma continua a suonare innovativa, seducente e lontana dalle mode, che nel corso del tempo non sono mai state capaci di seguire la visione eccentrica e inimitabile degli Sparks.