In questi casi la domanda da farsi è una: meglio una proposta a tutti i costi originale che tuttavia manca di brillantezza, oppure una che si limita a ricalcare pedissequamente modelli già esistenti, ma che dimostra forza e brillantezza nella scrittura dei brani?
Per quanto mi riguarda, propendo per la seconda ipotesi. Posto che non credo che l’originalità sia più un criterio perseguibile in questi tempi di bulimia produttiva e citazionismo imperante, alla fin fine quello che conta in un disco è che le canzoni ci siano e che siano belle da ascoltare; la rilevanza storica, l’eredità artistica, la categoria di “capolavoro”, sono tutti aspetti che non possono essere analizzati a pochi giorni dall’uscita.
Giusto per fare un esempio, prima di parlare del caso in questione, a me i Greta Van Fleet non hanno mai detto nulla ma non certo perché erano cloni dei Led Zeppelin; semplicemente, ho sempre trovato il loro repertorio altamente insignificante.
Wes Leavins è cresciuto a Port Arthur, piccola cittadina del Texas dove, a suo dire, trovare qualcuno che amasse la musica e volesse fondare un gruppo era impossibile. A 13 anni inizia a scrivere canzoni, dopo aver saccheggiato la collezione di dischi dei suoi genitori: Elvis Presley, Roy Orbison, Frank Sinatra, Cars, Tears for Fears sono i principali nomi a cui si ispira, più avanti scoprirà da solo l’esistenza di Strokes, MGMT e Radiohead.
Terminato il liceo se ne va a New York, sognando un futuro da cantante. Fa un’audizione per il famoso show della Sun Records, Million Dollar Quartet, e ottiene la parte di Elvis. È qui, durante una delle repliche, che viene notato da Baz Luhrmann, che sta preparando un biopic proprio sull’artista di Tupelo, e che decide di ingaggiarlo per cantare alcuni pezzi.
Sul set del film (che per la cronaca, è uscito nel 2022) pare abbia conosciuto Brigitte Bardot e portato avanti con lei un rapporto epistolare che, da quel “Baby” con cui lei era solita indirizzarsi a questo ragazzo che aveva evidentemente preso in simpatia, sarebbe nato il nome del gruppo, ironicamente, potremmo dire, l’unico elemento davvero originale di questo progetto.
I Brigitte Calls Me Baby nascono a Chicago, nella città dove Leavins si era nel frattempo trasferito, e sono tutti nei loro primi vent’anni. Jack Fluegel (chitarra), David Rosendahl (chitarra), Devin Wessels (basso) e Jeremy Benshish (batteria), oltre naturalmente a Leavins, hanno suonato da subito parecchio in giro, anche al celebre South by Southwest, il festival texano dove anche i nomi piccoli, con il dovuto investimento, possono partecipare e farsi conoscere.
Notati dalla ATO Records proprio in questa occasione, sono stati immediatamente messi sotto contratto. A novembre 2023 è uscito l’EP This House is Made of Corners, prodotto da Dave Cobb (Jason Isbell, Brandi Carlile), dopodiché, al termine di una lunga striscia di live in compagnia di nomi come Strokes, Last Dinner Party e Yeah Yeah Yeahs, è arrivato questo The Future is our Way Out, sempre prodotto da Dave Cobb, che ai cinque brani dell’EP aggiunge sei inediti.
C’è un nome, tra tutti quelli tirati in ballo finora, che non abbiamo ancora fatto, e che ci serve per riallacciarsi al discorso di prima: gli Smiths. La band mancuniana costituisce infatti la sintesi perfetta di tutte le influenze che il giovane Wes ha assimilato negli anni della sua formazione da autodidatta. L’amore per l’immaginario agrodolce e romantico degli anni ’60, unitamente a quello per il rock alternativo dei primi anni Duemila, non poteva che essere realizzato appieno andando a riprendere il repertorio del duo Morrissey/Marr.
The Future is our Way Out è un debutto sfolgorante, un atto d’amore a quelle “canzoni che possono salvarti la vita”, giusto per non fare citazioni a caso. Le ritmiche Jangle di Fluegel e Rosendahl, unitamente al cantato di Leavins, eccezionalmente simile, per timbro ed intenzioni, a quello di Morrissey (ha dichiarato che alle superiori la sua voce non gli piaceva ma evidentemente ora ha imparato a conviverci) sono gli ingredienti attorno a cui ruota un disco tanto scontato quanto tremendamente brillante.
Non c’è una singola nota che non sia già sentita ma, allo stesso tempo, non si tratta di una mera scopiazzatura: si capisce che Leavins nutre un autentico amore per quello che fa, per cui più che limitarsi a riprodurre atmosfere, riversa nelle canzoni le sue emozioni ed il suo vissuto, omaggiando il canzoniere smithsiano ma scrivendo allo stesso tempo il proprio diario intimo.
L’immaginario è quello classico dei Sixties, lo stesso raccontato dalla penna tormentata del giovane Moz: la vita e la morte, il sogno e la realtà, l’innamoramento ed il sentimento di inadeguatezza, elementi che trovano la migliore sintesi espressiva nella straordinaria “I Wanna Die in the Suburbs”, vero e proprio manifesto esistenziale di una generazione cresciuta con “There is a Light that Never Goes Out” perennemente nelle cuffie.
E ancora, quel ripetuto “There must be” con cui termina la title track, anch’essa ben esemplificativa della visione del suo giovane autore: il verso è preso ovviamente da “Asleep” ed esprime quell’ostinato non rassegnarsi ad un’esistenza priva di qualcuno che le dia un senso. Quel brano è stato da più parti considerato come una sorta di canto del cigno della band di Manchester, qui viene invece messo al servizio di un episodio che apriva l’EP e che adesso apre il disco, come se davvero, nonostante tutte le disillusioni, si potesse ancora puntare sul futuro come unica via di fuga.
Per il resto, in questi 37 minuti non c’è un solo pezzo debole: che sia il Jangle Pop brioso di “Pink Palace”, la cavalcata robusta di “Fine Dining” (in odore di “Big Mouth Strikes Again”) le probabilissime hit “Eddie my Love” e “Palm of your Hand”, con i loro ritornelli clamorosi, l’intensa ballata “Too Easy”, anche questa con una melodia da capogiro, l’anthemico singolo “We were Never Alive” (un’altra che sarebbe da cantare negli stadi), per concludere con la serenata acustica di “Always be Fine”, che offre in un certo senso la soluzione per guardare in faccia a tutte le contraddizioni della realtà: “Life can always be fine/That’s okay/Take it one day at a time”; sono tutti esempi di che razza di autore sia Wes Leavins (uno che potrebbe già lavorare assieme alle più grandi firme del Pop) e di come, stando così le cose, sia decisamente assurdo pensare di snobbare questa band solo perché suona “già sentita”.
“Perché dovrei sentire un gruppo che suona come gli Smiths? A questo punto tanto vale mettere su gli originali!”. Obiezione comprensibile, per carità, ma a mio parere superficiale: se le canzoni sono belle, se trasudano passione e freschezza, come in questo caso, non vedo perché non bisognerebbe concedere loro una chance. Vivere nel presente è sempre meglio che rimanere ancorati ad inutili nostalgie; i Brigitte Calls Me Baby, pur nel loro smaccato passatismo, sono una band del presente e come tali andrebbero trattati.
Avranno successo? Al momento sembrerebbe di sì, ma ricordiamo che non è questo che interessa loro. In una recente intervista, il cantante ha dichiarato una cosa del tipo: “È bello essere famosi, ma la cosa più importante è ottenere di permanere nel tempo”.
Giustissimo, mi pare, e se le cose stanno così, temo che bisognerà attendere ancora qualche anno per vedere se ci riusciranno.
Un’ultima considerazione: ricordiamoci che gli Smiths, nella loro brevissima carriera, non totalizzarono mai i numeri delle grandi star del rock. Oggi sono probabilmente il gruppo più importante e influente tra gli addetti ai lavori e nove band su dieci li citeranno tra i loro modelli di riferimento, ma se andate in giro per strada a chiedere chi fossero, dubito che ricevereste molte risposte. Ecco perché, azzardo una previsione, non vedremo il quintetto texano proiettato sugli stessi orizzonti già raggiunti dai Greta Van Fleet e al momento intravisti dai Lemon Twigs (altro esempio di gruppo che, nonostante sia molto più che derivativo, merita davvero di essere ascoltato): se ti ispiri ai Led Zeppelin e ai Beatles le chance di successo sono comprensibilmente più alte.
Sono tuttavia considerazioni che lasciano il tempo che trovano: date un ascolto a questo gruppo, se vi piace il Jangle Pop o se, più semplicemente, desiderate sentire una canzone scritta come Dio comanda. Nel frattempo speriamo prima o poi di vederli dalle nostre parti, al momento è in programma solo un lungo tour negli Stati Uniti.