C'erano una volta i politici che si occupavano solo di politica. C'erano campagne elettorali dove a contare erano i temi caldi della nazione, il pensiero da esporre, i discorsi eloquenti.
C'è stato un tempo in cui i giornalisti erano integri e di temi seri parlavano. Si accordavo con quei politici, li seguivano con occhi attenti, lasciando ai giornaletti le questioni più effimere. Poi, tutto è cambiato. Colpa, involontariamente, di Gary Hart. Colpa di giornalisti che vedevano nella sua dichiarata integrità delle menzogne, nella sua battuta adirata contro un collega, un cavillo a cui interpellarsi. Cos'hanno fatto questi giornalisti? Si sono appostati sotto il suo appartamento di città, l'hanno seguito in un vicolo, cercando di capire se avesse un'amante. Cos'ha fatto Hart? Una tresca l'ha avuta, cercando di nasconderla alla moglie e ai suoi elettori, trincerandosi dietro un silenzio che non era colpevole, era un sonoro: perché dovrebbero essere fatti vostri. Cosa succederà? Che come sempre il privato diventa pubblico, che un piccolo fatterello pruriginoso va a minare non solo l'intero sistema di valori di un politico ma anche la sua intera campagna elettorale. Succede soprattutto che quei giornalisti di cui sopra, mettendo in prima pagina quel privato, autorizzano il fango, le inchieste di poco conto, lo show ad entrare nei posti caldi della politica. Va da sé, senza prima verificare i fatti, per quanto alla fine veri. Così, nel giro di un paio di giorni, Hart che era il front runner, l'uomo da battere per i democratici, deve dire addio al suo sogno presidenziale, consegnando agli americani che si cibano di notizie spazzatura, il Presidente -ma viene da dire i Presidenti- che si merita. Nella fattispecie: George Bush padre. Ma mettiamoci pure un Trump, visto che quegli stessi elettori indignati per un'amante maggiorenne e consenziente hanno poi votato un misogino accusato a più voci di molestie. La coerenza, eh? Ecco che quindi la storia della caduta di Gary Hart, sconosciuta almeno a me ma immagino anche ai più giovani, diventa un materiale altrettanto caldo. La buona notizia è che Hugh Jackman, Vera Farmiga e la fragile Sara Paxton riescono a dare un quadro umano di questa politica e anche grazie anche a J. K. Simmons, Alfred Molina, Alex Karpovsky in ruoli minori, il risultato lo si porta a casa. La cattiva è che di politichese ce n'è parecchio, e c'è una patina pesante in quella fotografia retrò, in quell'atmosfera fumosa, che toglie leggerezza al lavoro di Jason Reitman, che non risparmia stoccate e riflessioni al movimento #metoo, con dubbi su quella integrità e quella simpatia spontanea che Hart suscita. L'ultim'ora, infine, è che The Front Runner poteva valere di più, essere promosso meglio seppur insito in quella politica americana che racconta, ma a distanza di 30 anni dai fatti merita ancora la prima pagina.