Il sogno di una notte di mezza estate, il titolo di una delle commedie più conosciute di William Shakespeare, mi è venuta in mente ieri sera durante il concerto dei Courettes.
Perché? Molto semplice, pensate a questo copione: il tempo, un sabato di fine luglio; il luogo, un piccolo paesino della bergamasca; la scenografia, una associazione di amici che da 14 anni organizza (avvalendosi di circa 100 volontari) Liberalafesta una serie di concerti (completamente gratuiti) con un servizio di cucina finalmente degna di questo nome; i personaggi principali, The Courettes, ovvero Flavia e Martin Couri.
Cantante e chitarrista brasiliana lei, drummer e back vocals danese lui, rispettivamente moglie e marito, che dopo un primo album di puro garage punk, a partire dal secondo fino all’ultimo, pubblicato in occasione del loro primo tour americano, hanno orientato il loro sound dal classico garage, verso un sound maggiormente debitore e figlio del periodo d’oro del Rock’n’Roll, ovvero gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.
Questa evoluzione sonora viene rispecchiata dalla scaletta dei pezzi presentati nel corso del concerto, che, tranne “The boy I love”, già presente nel primo album e successivamente ripubblicata in B-Sides & Outtakes, si è praticamente basata sulle tracks presenti negli ultimi album.
Il set inizia con “Hoodoo Hop” e la sua graffiante fuzz guitar in primo piano supportata da un drumming potente, per passare ad un pezzo come “Time is ticking”, debitore dei grandi gruppi go-go girls degli anni Sessanta (Shangri-Las, Ronettes, una delle quali diverrà la moglie del produttore Phil Spector).
E proprio il wall of soud tipico del produttore statunitense rimane uno dei paradigmi di riferimento del gruppo (omaggiato nel titolo stesso dell’album Back to mono che richiama il famoso boxset dello stesso). Uno dei loro pezzi più garage, “Boom Dynamite!”, ad esempio, è presentato in una versione quasi proto-punk con la richiesta – subito accolta dal pubblico – del contro coro, seguito da una classica crooner ballad come “The Strawberry Boy”, alla pari di “Daydream” (cantata in giapponese), che chiude un trittico iniziato con “Until You’re Mine”, presente nel loro LP Back in Mono.
L’amore per le melodie vocali quasi soul emerge anche nel brano “R.I.N.G.O.”, uscito su 7 pollici con il volto del batterista dei Beatles, una vera e propria go-go song, per poi passare ad una altra canzone pregna di umori Rhythm & Blues come “Trash Can Honey”.
Il concerto non poteva non chiudersi con un'altra grande canzone come “Hop the Twig” con il suo riff trascinante, le svisate chitarristiche ed il potente drumming di Martin a sostegno, con Flavia portata sulle spalle da pubblico come passarella finale. Peccato che i due non abbiano presentato questo pezzo in italiano, avendolo inciso come lato A di un 45 giri, dedicato al nostro mercato e a quello spagnolo. Ma a conclusione un simile live non ci resta che aspettare il loro prossimo album, che dovrebbe uscire i primi mesi del 2024.
In chiusura però vorrete permettermi una riflessione che spero non attragga gli strali di nessuno. Mentre ero al concerto mi è venuta da fare una riflessione sulla cosiddetta “essenza del rock”.
Mi domandavo infatti se avesse un senso presentare come live report, dopo gli ultimi ottimi due realizzati da Luca, riguardanti due mostri sacri presenti nella Rock Hall of Fame, come Mason (perlomeno come appartenente ai Pink Floyd) e Springsteen (pensate che è talmente famoso da essere presente nel correttore automatico) quello di, come si usava dire negli Ottanta, un’oscura combo come i Courettes.
Abbiamo da un lato degli artisti conosciuti a livello mondiale, che suonano in location altamente suggestive come il Vittoriale, oppure in spazi enormi come quello di Monza, davanti a migliaia di persone; dall’altro un piccolo paesino della bergamasca, dove, davanti a circa 200-300 persone, un duo brasiliano-danese suona un concerto assolutamente no frills (i due musicisti sul palco con la loro strumentazione ridotta e stop). Il contrasto è davvero imponente.
Perché allora per me, ma come per molti presenti lì, se non la storia, perlomeno la “cronaca” del rock passa per concerti come questo?
Secondo me la risposta è fenomenologica: perché la storia del rock è come la storia del mondo (e quindi, in ultimo, dell’uomo): ci sono dei personaggi che hanno fatto la storia (nel bene e nel male) ma la storia, quella di ogni uomo e di tutti i tempi, non può essere semplicemente la biografia di alcuni grandi personaggi.
Il rock tiene dentro i mega concerti come le piccole venues, ciò che importa è che, come la vita, venga vissuta col cuore, sia da chi la suona sia da chi, toccato dai quei tre benedetti accordi, mostri di apprezzarla.
Photo credits: Claudine Strummer