Cerca

logo
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
06/09/2023
Le interviste di Loudd
The Fabolous Courettes @ Brembeat and Roll
In occasione del concerto svoltosi lo scorso 29 luglio abbiamo intervistato The Fabolous Courettes: tra suggestioni R&R, argute osservazioni sul rock, la decisione di non incidere covers (un unicum per una band garage) ed una sorpresa in merito al loro secondo album “We are the Courettes”.

Mi sembra che a partire dal vostro primo album (Here are the courettes) che può definirsi di puro garage punk, e in molta parte del secondo album (We are the courettes), il vostro sound si sia in qualche modo avvicinato maggiormente al Wall of Sound di Phil Spector, alla musica dei Fifties, con una maggiore attenzione alle parti vocali e un ampliamento dello spettro di influenze (doo wop, R&B, ballads, etc). È una lettura corretta oppure è una sensazione personale? Rispecchia il vostro mood?

Martin: Mentre stavamo realizzando We are the courettes, visto che rispetto al primo era più garage punk, più “grezzo” (anche la registrazione, ti basti pensare che in studio abbiamo terminato in soli due giorni!) effettivamente ci siamo ispirati maggiormente al Wall of Sound di Phil Spector.

Flavia: Infatti, se nella registrazione del primo album avevamo la grande preoccupazione, la filosofia, il pensiero: “beh facciamo nell’album quello che potremmo anche riprodurre dal vivo, non registriamo nulla che non sia ugualmente riproducibile dal vivo”, quindi con l’utilizzo di pochissime sovraincisioni (praticamente alcune parti col tamburello e la chitarra); per il secondo album, invece, abbiamo fatto dei passi in avanti; ci siamo permessi di ampliare lo spettro di strumenti. Dalla preoccupazione preventiva della resa dal vivo dei brani, pari a quella in studio, ci siamo evoluti pensando che potevamo comunque esplorare nuove possibilità a riguardo delle armonie, dei vocals, per esempio, ho registrato alcune parti col piano.

Quindi quale è diventata la nostra nuova filosofia registrando il secondo album?  Vivere l’esperienza dello studio come studio, e l’esperienza live come un live. Ci siamo concessi di evolvere con una maggiore attenzione all’arrangiamento, aggiungendo nelle registrazioni un po' di piano, l’organo, il dulcitone, qualche sovraincisione, un maggiore uso delle percussioni, permettendoci di esplorare e di poter variare, sperimentare ed evolvere in un percorso che ci ha portati fino al terzo album. Noi pensiamo che alla fine il tipo di musica di Back to mono è quella che abbiamo sempre voluto fare. Se pensi ad esempio al brano “The boy I love”, già presente nel primo album, si tratta proprio di una canzone nello stile “go go group”.

Durante la pandemia l’esperienza in studio è stata diversa, abbiamo pensato al nostro studio come ad un co-strumento. Abbiamo pensato come possiamo utilizzare lo studio come uno strumento? e abbiamo voluto esplorarne le possibilità. Questa è stata per noi, alla fine, la vera rivelazione: una buona canzone è una buona canzone, rimane bella sia che la performance avvenga con una sola chitarra in spiaggia o in campeggio, oppure sia resa con un’intera orchestra.

Per noi ciò che conta di più è realizzare delle buone canzoni ed evolvere come autori e musicisti nello scrivere canzoni sempre più belle; a quel punto è secondario con quanti e quali strumenti tu le realizzi, una canzone bella funziona con ogni tipo di strumenti tu la suoni. Non ti preoccupi più di quanti overdubbing utilizzi (potresti averne a migliaia di overdubs) o se utilizzare chitarre acustiche, chitarre a 12 corde, percussioni, backing vocals, piano, organo, mellotron o qualsiasi cosa, perché la canzone rimane riconoscibile, sopravvive. Alla fine, è stato un cambio di filosofia nel registrare un album. Amiamo fare live, ma, nella stessa misura, amiamo anche la registrazione in studio. Penso infatti che Back in mono sia quello che abbiamo sempre voluto fare. Per noi evolvere musicalmente è significato svincolarsi dall’essere crudi e diretti ma essere invece liberi di sperimentare.

 

Avete appena pubblicato una compilation (Boom! Dynamite) per il Vostro Tour negli US, come è andata? Siete soddisfatti?

Flavia: Per ogni musicista che suoni il Rock n Roll è una sensazione magica poter suonare in America. Molte delle band e dei nostri artisti preferiti sono americani (gli artisti della Motown, i go-go groups, Chuck Berry, Elvis Presley, alcuni idoli come i Ramones); questo vale anche per il Regno Unito, la patria dei Beatles, dei Kinks, dei Rollling Stones. È stato così bello che ci abbiamo accettato. Ricordo ancora la prima volta che abbiamo suonato in UK: è stato un grande successo ed è stata un’esperienza profonda; siamo passati anche in radio, alla BBC, la gente cercava e comprava i nostri dischi ed eravamo così orgogliosi perché pur essendo io brasiliana e Martin danese eravamo accettati ed apprezzati in quanto capaci di fare rock, il tipo di musica che loro fanno al meglio, quella suonata da alcuni dei nostri idoli.

Per quanto riguarda i tours negli Stati Uniti è dura, perché non solo devi misurarti a casa loro, c’è anche l’altro lato della medaglia, non c’è l’euro e devi necessariamente sostenere moltissimi costi in più: i costi del volo, i costi del noleggio della macchina, delle trasferte, solo per darti un’idea il costo del tour è stato di circa $ 5.000! inoltre non hai le stesse fee che hai in Europa. Fare un tour negli USA è molto costoso. Le distanze sono enormi, si tratta di un continente. In ogni caso è andata bene, siamo stati un paio di volte, abbiamo suonato nel mese di marzo e abbiamo fatto un tour della California in maggio: siamo stati dove i Byrds hanno registrato e poi a Los Angeles, dove è stato fantastico, anche a San Francisco. È magico anche solo essere lì e respirare quell’aria. Il pubblico americano è stato fantastico, capiscono anche la fatica di arrivare dall’estero e supportano le band, acquistano il merchandising (dischi, magliette) ti suggeriscono persino alloggi per la notte. Ci siamo sentiti i benvenuti, avevamo un po' di timore in quanto stranieri ma tutti sono stati gentili. In settembre torneremo nella East Coast. Suoneremo a New York, a Detroit, Indianapolis, Chicago, con una tappa anche a Memphis, per un tour di circa 12/13 giorni.

 

Avete registrato il primo disco in mono, poi siete passati in stereo, e nelle ultime produzioni (Back in Mono e B-sides & outtakes) siete tornati a registrare in mono, qual è la ragione di tale scelta vintage?

Martin: Si abbiamo avuto un’evoluzione. Il primo album è in mono, il secondo in stereo, ma occorre dire che durante la preparazione del secondo album l’idea era quella di registrarlo in mono come fatto per il terzo album Back in mono e per il primo album. Siamo andati in studio e pensavamo che la registrazione fosse in mono. È stato poi in un secondo momento, durante il processo di masterizzazione, che il tecnico ci ha detto: “no ragazzi questo album non è in mono, è in stereo!”, non lo sapevamo!

Flavia: È stato un incidente (ride)!

Martin: Più che un incidente è stata una scelta del produttore, non ce l’aveva detto, noi volevamo inciderlo in mono, ma alla fine abbiamo detto “ok, wow”. Il terzo album è stato invece totalmente ispirato al Phil Spector sound, al suo Wall of Sound. Lo abbiamo intitolato Back in mono richiamandoci allo slogan “Back to mono” di Spector.

Flavia: Se ci pensiamo, alla fine per Back in mono è così che è nato il progetto, il nome del terzo album stesso è stato come una filosofia, una scelta, tutto il concept, i suoni, la scrittura è nato da lì, e la registrazione è stata divertente. Forse è stata una sorpresa, ma è andata così, tutto nasce dal fatto che la registrazione in stereo del secondo album è stato un incidente.

 

Siete un gruppo molto particolare (marito e moglie), la situazione personale che vivete vi aiuta ad avere un interplay migliore per la musica o è accaduto e basta?

Flavia: Proprio così, nella vita siamo marito e moglie! Ma come il tutto è avvenuto è stato simpatico, non abbiamo deciso né di sposarci né di mettere insieme una band. È successo tutto molto naturalmente. Molta gente potrà non crederci, ma non avevamo pianificato di essere un duo, non ci siamo mai detti “sposiamoci, formiamo una band”. Abbiamo iniziato la nostra relazione mentre facevo parte di un altro gruppo in Brasile, e con Martin abbiamo avuto per lungo tempo un legame a distanza durato circa due anni, poi mi sono trasferita in Danimarca. Proprio mentre viaggiavo, e percorrevo 10.000 chilometri in volo per raggiungerlo pensavo: “beh, alcune canzoni che sto scrivendo in aereo potrei registrarle in studio da Martin” (“The boy I love, I wanna be your Yoko Ono”) e così abbiamo fatto e poi ci siamo detti: “hey, siamo un duo”. È stato tutto molto naturale.

Per il primo album avevamo solo 8 canzoni. Tutto è nato naturalmente nella storia della nostra band. Alla fine aver cura della band per noi coincide con l’aver cura del matrimonio. In una band, come in tutte le band, si tratta di relazioni. E così anche nella vita di coppia. È una doppia relazione di cui prendersi cura. Ci prendiamo cura l’uno dell’altro in tour. Può stancarti e litigare in un tour, come può stancarti un matrimonio, beh, noi perderemmo una band e un matrimonio. Si tratta di rispetto. A volte può essere difficile, ma davvero noi facciamo tutto il possibile per avere a cuore la nostra relazione professionale e personale. Poi abbiamo preso delle decisioni. Non si parla di lavoro e aspetti manageriali a tavola con i figli, a casa. A casa siamo marito e moglie, madre e padre. Cerchiamo di creare dei muri, dei separé, altrimenti parleremmo tutto il tempo di lavoro, o tutto il tempo di famiglia in tour. Cerchiamo di mantenere le cose separate anche se non è sempre possibile in assoluto. Cerchiamo di fare tesoro anche di esperienze passate in altre band i cui componenti, magari poi non stavano più bene insieme. Si tratta di portare il buon umore, il rispetto, noi ci proviamo veramente.

 

Dal vivo siete molto più “diretti” che in disco, ciò è dovuto al fatto che la strumentazione (batteria e chitarra) è molto più ridotta rispetto alla strumentazione di studio, oppure è una scelta consapevole e voluta?

Flavia: La prima cosa che sottolineerei è che siamo noi due in studio a suonare gli strumenti ed a fare tutti gli overdubs. Dico questo perché mi è capitato, in riferimento all’album Back in Mono, di sentire qualcuno dire “oh guarda, hanno davvero un grande numero di musicisti”. No, siamo solo noi ed il nostro produttore, che ha suonato in minima parte il mellotron e l’organo. Quindi l’album è il frutto di lavoro di soli 2, 3 musicisti. Non abbiamo mai veramente pensato di ingrandire la band, di aggiungere un nuovo membro nella band, cerchiamo creare il nostro wall of sound con la chitarra, la batteria e le nostre voci, cercando di fare il massimo “rumore” possibile, sudando e sudando, muovendoci e godendo della performance live nel vero senso del termine. Io la penso così: se non arrivi a sudare e far sudare non stai dando abbastanza.

Quello che trovo interessante è questo senso di comunità è questo incontro tra artisti ed il pubblico che è una specie di trance, un’esperienza quasi trascendentale, cioè quello a cui puoi arrivare con una sola chitarra e la batteria oppure con 20 elementi di un’orchestra. Vedi, il punto è che se non c’è energia, non c’è energia, ma se c’è, non importa quanti strumenti tu stia utilizzando. Prima viene l’energia e il feeling che porti, gli strumenti vengono dopo. C’è come un sentimento nell’aria quando un’artista esegue i suoi brani, e con gente piena di energia e sudore come noi con cui si vive un bel momento insieme; per noi questa è la cosa più importante.

 

Avete registrato un 7” in italiano, come fatto negli anni ‘60 da alcuni musicisti stranieri, penso che la nostra lingua sia difficile da imparare, parlare e cantare, come vi siete trovati, oppure essendo Flavia brasiliana è stato meno difficile?

Flavia: Negli anni ‘60 molte band facevano hit da versioni originali in inglese, e per noi è lo stesso. Anche in Brasile succedeva la stessa cosa (Flavia canta alcune strofe di “tintarella di luna” di Mina in portoghese, ndt.). Io stessa sono cresciuta con canzoni inglesi cantate in portoghese. In Brasile, specialmente negli anni ‘60, era la norma tradurre i testi in portoghese, anche i brani dei Beatles. In alcuni casi rimaneva solo la musica e cambiavano i testi. Siamo grandi fan di canzoni cantate in altre lingue, di come “suonano”. Siamo fan di versioni europee di brani originali in inglese, quindi l’idea di incidere in lingue diverse ci è piaciuta. La prima canzone l’abbiamo fatta in italiano (“Salta il ramo”, cover di “Hop the twig”, ndt.), la seconda l’abbiamo fatta in francese (“Bye bye mon amour”, ndt.), poi ne abbiamo anche una in giapponese (“Day dream”). Non ho idea di come suoni il mio giapponese o il mio italiano, ho avuto poco tempo per fare pratica ma ho fatto del mio meglio, in ogni caso lo troviamo un progetto divertente e di cui siamo orgogliosi. Ci si è aperto un universo ed è divertente da fare e nel frattempo ti apre a nuovi mercati.

 

Ho visto che, nella classica tradizione garage, nell’ultimo anno avete inciso diverse cover, il prossimo album sarà di cover? (errore tattico del vs. cronista, ndt.) È già prevista una data di uscita?

Flavia: L’anno scorso siamo stati invitati dalla Cleopatra Records con altre band a fare parte di un tributo ai Grass Roots (The Grass Roots – Let’s live for today, ndt.). Le voci originali venivano mantenute e potevi registrare la base con gli strumenti che volevi e realizzare dei back vocals. Si era liberi di realizzare ciò che si voleva musicalmente. Così nel nostro studio, abbiamo lavorato sulla canzone (“Wait a million years”), che è una grande canzone. Abbiamo registrato la nostra versione con i nostri strumenti e poi, con quelle realizzate da altre bands, ad esempio i Fuzztones, è stato realizzato un vinile. Il progetto sta continuando, abbiamo realizzato altre song dei/con i Flaming Groovies (“Shake some action”, ndt), Johnny Thunders (“You can’t put your arms around a memory”, ndt), Sam & Dave (“Hold on, I’m coming”, ndt).  The Cramps (“Bikini girls with machine guns”, ndt). Per quest’ultimo brano abbiamo inciso anche le lead vocals, mentre negli altri casi abbiamo lavorato sulle vocals originali, suonando gli strumenti: soprattutto per Sam & Dave è stato un vero piacere lavorare con le loro vocals.

Martin: È stata una esperienza interessante, non si tratta di covers, perché si partiva dalle voci originali, suonando con voci iconiche, dei veri e propri idoli giganteschi, appunto Sam & Dave, Johnny Thunders.

Flavia: È stata un’esperienza di cui siamo orgogliosi, della quale abbiamo fatto parte insieme ad altre band, ma non un’esperienza da carriera. E la cosa divertente è che noi non siamo una band che suona cover, non le suoniamo dal vivo, non le incidiamo, perché amiamo troppo gli originali. Noi suoniamo per circa un’ora, un’ora e mezza solo pezzi originali. Dal vivo non suoniamo i pezzi registrati per la Cleopatra, perché sono produzioni solo per lo studio, non si tratta di covers, ma di remix suonati con le voci originali. Siamo onorati di lavorare con la Cleopatra records, è un bel progetto, sono una label importante, ma non fa veramente parte della nostra carriera, non suoniamo quei brani dal vivo. Il prossimo album di cui abbiamo iniziato le registrazioni solo due giorni fa, sarà composto solo da canzoni originali. Abbiamo scritto 16 brani, pensiamo di inciderle 12, quindi si è trattato di un progetto parallelo, di cui siamo comunque fieri. Quindi, per risponderti, non suoniamo e non abbiamo mai suonato dal vivo cover, solo originali. Per noi è una scelta vincente ma occorre essere molto coraggiosi (Flavia utilizza un termine maggiormente incisivo, ndt.). Occorre coraggio perché è più semplice proporre al pubblico “Johnny be good” qualcosa che il pubblico riconosce, tutti la cantano, tutti sono contenti. Noi l’abbiamo fatto solo una volta, agli inizi della band, in uno dei primi concerti ma poi la sensazione che ti porti è “questi non siamo veramente noi”, ti sembra di approfittarne. Ti accordi che la gente apprezza le cover ma poi ama ciò che è tuo di più e ti dici “che cavolo”. Non c’è mai piaciuto percorrere la via più semplice, fare dei concerti dove suonare due o tre covers che tutti conoscono e possono cantare. No quindi alla via facile, ma aprire le mente e abbandonare la strada facile. Questa è la vera grande vittoria. Tanto non riusciremo mai a suonare i Sonics meglio dei Sonics, non riusciremo mai a suonare i Beatles meglio dei Beatles. Abbiamo una mission, essere i Courettes, raggiungere un’audience che per un’ora si diverta, che abbia la mente aperta e che non si aspetti ciò che già conosce.

Martin: il grande problema con molte band che suonano cover è che ovviamente scelgono di suonare delle bellissime cover e capita che delle volte queste iconiche cover songs diventino più conosciute e amate dei pezzi originali e questo penso possa essere una scelta sbagliata per la loro carriera.

 

Quando uscirà il vostro prossimo album?

Probabilmente l’anno prossimo, nei primi mesi nel 2024, in ogni caso molto dipende, dai tempi di incisione, che sono diventati più lunghi negli ultimi tempi. E ti faremo senz’altro sapere, così da fare magari un’altra intervista.

 

 

(Ringrazio Letizia Fiore per l’aiuto nella traduzione)