L'hanno presentata come la nuova serie di Damien Chazelle.
Ma non è così.
Chiariamolo subito: il buon Damien che il jazz lo ama è qui uno dei sei produttori esecutivi e fa da regista ai primi due episodi.
Poi basta, scompare nel nulla pur avendo dato il là a quello stile fatto di camera a mano, ravvicinata e tremolante, che si concede lunghi piani sequenza che prosegue anche senza di lui.
The Eddy è in realtà partorito da Jack Thorne, che nel raccontare le fatiche, le prove, la difficile vita di un locale parigino e della sua band ci butta dentro un po' la qualunque.
Omicidi, mafia, ricatti, figlie ingestibili, piccole band che crescono, lutti insuperabili, viaggi alla Mecca, scuole prestigiose, madri tormentanti, dipendenze e abusi.
Basta?
Sembra esserci tutto.
Ed è chiaramente troppo, soprattutto se questo troppo non lo si gestisce a dovere, dedicando un episodio a personaggio, cercando di scavare nel suo presente e nel suo passato, nel suo essere piuttosto insopportabile.
Perché sì, i protagonisti di The Eddy si odiano un po' tutti: si urlano addosso, non si ascoltano, sono sempre di fretta anche senza un motivo, mentono alla polizia (una polizia che non si fa mai valere e brancola nel buio), a loro stessi, agli altri.
Così, per rendersi ancora più insopportabili.
C'è Elliot, che ha perso un figlio, ora ha perso il suo migliore amico, e si ritrova a gestire una band e un locale e pure una figlia odiosa.
C'è Julie, la figlia di cui sopra, rifiutata dalla madre, in conflitto con il padre, che provoca un povero cameriere tormentandolo fino a conquistarlo.
C'è Maja, la cantante della band, ex amante di Elliot, che beve, che farnetica, che non crede troppo in se stessa.
Poi ci sono un bassista con il cuore spezzato, una batterista piena di debiti e sensi di colpa, una vedova che deve riuscire ad andare avanti.
Strano ma vero, a salvare la serie è il jazz.
Non a caso l'episodio migliore resta quello dedicato ad Amira (1x03) dove in un funerale si parla poco e si suona tanto.
Quelle canzoni jazzamente convenzionali, ripetute allo stremo e quindi presto canticchiabili, riescono ad alleviare i mal di testa che la macchina da presa a mano danno, e le lunghe corse, i tanti ripensamenti, le parole che i personaggi si gridano addosso.
Riescono così a mettere una pezza ad una sceneggiatura che non sa mai che strada prendere.
Perché, davvero, se si togliesse quella sottotrama legata alla mafia e alle sue minacce, ne uscirebbe un quadro umano ed emotivo molto, molto più interessante.
E il fatto che il finale resti sospeso e nebuloso, lo conferma.
Ambientata in una Parigi tutt'altro che da cartolina, in quartieri periferici e nascosti dove il francese si mescola all'inglese, all'arabo e al polacco, The Eddy può vantare un André Holland protagonista che porta a casa il suo personaggio con facilità, mentre causa gravidanza si fatica a riconoscere in Maja l'eterea Joanna Kulig di cui ci si era innamorati in Cold War.
Il resto del cast è composto da veri musicisti che si prestano alla recitazione, con una nota a parte per Amandla Stenberg, che con un personaggio odioso si rende forse più antipatica del necessario.
The Eddy non ha quindi la magia di La La Land né l'ossessione di Whiplash, non ha i sentimenti a fuoco di First Man né la genuinità di Guy and Madeline on a park bench, l'esordio sempre musicale di Chazelle.
Semplicemente perché The Eddy non è un'opera di Chazelle, non a pieno titolo.
E si sente.