«We do our best, we kept his trust, our Dad would have been proud of us»
In cosa si misura la giustezza di una decisione? Qual è l’unità di misura dell’opportunismo di un’azione? Sicuramente non parlando prima che questa persona prenda la parola, non c’è niente di peggio. Non hai ancora aperto bocca e già devi pensare a difenderti da un’accusa ulteriore. Eppure potrebbe bastare ascoltare, dare fiducia, eliminare i pregiudizi, dare la possibilità di cambiamento, nonostante tutto, nonostante il passato. Perché c’è sempre un passato con cui fare i conti. In caso contrario, nel caso proprio fosse difficile ascoltare chi ho davanti, allora dobbiamo tornare al passo precedente: per quale motivo siamo lì. Per ascoltare una persona, ricevere, scambiare.
In questo caso stiamo parlando di un disco. E come tutti i dischi andrà ascoltato e lasciato parlare.
Qualora non bastasse neanche l’ascolto, beh, mi raccomanderei comunque prima di aprire bocca di informarsi attraverso la cartella stampa ufficiale, aggiornata con le informazioni condivise dall’artista di turno, spesso le sue vere e proprie parole, scelte per accompagnare e colorare quell’uscita, magari aiutandone la comprensione e i presupposti. Ma c’è davvero bisogno di dirlo?
«It’s not a replacement of the original which, obviously, is irreplaceable».
Roger Waters, storico e controverso leader dei Pink Floyd dal loro inizio fino al 1985, ha fatto una scoperta durante il lockdown: rinchiudersi in studio e aggiornare alcune sue vecchie canzoni. Farle vivere nel presente, annaffiarle di qualcosa di nuovo, di certo non per sradicarle dal passato, ma per la necessità di veder germogliare una nuova sensazione. Succede questo soltanto a chi senta di aver qualcosa da dire, che si abbia 25, 50 o 80 anni. Succede quando si è padri di qualcosa o di qualcuno. Accade quando si diventa nonni, improvvisamente attaccati da una sopita necessità di accudire, curare e tramandare.
In caso artistico, significa avere qualcosa da comunicare. E questo è il punto di forza imprescindibile che ha reso Roger Waters l’artista che conosciamo oggi e che gli ha permesso di fare il bello e il cattivo tempo all’interno dei Pink Floyd, traghettandoli nel periodo di maggiore successo planetario, per l’appunto dal 1973 al 1980 con Dark Side Of The Moon, Wish You Were Here, Animals e The Wall. Neanche i miei prediletti, se devo dirla tutta, io che sono un amante di Meddle e di tutto ciò che c’è stato prima del successo commerciale. Ma comunque dei capolavori indiscutibili, dove la mente di Waters ha preso per mano gli altri e li ha portati sempre più nel suo mondo di parole e ispirazioni sonore. Sempre meno psichedeliche, sempre meno Floydiane in senso di gruppo, ma così è andata, questa era la somma di equilibri data da tutti i presenti, più o meno in balia della propria fase di vita, di crisi coniugale, di dipendenze, di difficoltà a gestire una leadership o a digerire quella altrui.
Così è andata fino alla separazione/distruzione seguita a The Final Cut, di fatto un lavoro solista di Waters con gli altri prettamente utilizzati come mani più che come menti, ed è stato un peccato, un’evoluzione verso l’alto di un certo tipo di ego e percorso artistico, contrapposto al tragitto inverso in quanto a integrità di band. Cosa che comunque si era frammentata almeno dalle registrazioni di Wish You Were Here.
Questo è stato l’esito del loro sodalizio, della somma dei loro vertici e dei loro punti bassi. La loro storia che è diventata un po’ anche nostra. Tanto da giocare lo scherzo, a noi adulti e lui vecchio, di farci pensare di poter crocifiggere il padre ideatore e traghettatore. Questo è il rischio delle cose che entrano, ti toccano e non sai più dove cominciano loro e finisci tu.
«And also it is a way for me to honor a recording that Nick and Rick and Dave & I have every right to be proud of».
Durante le Lockdown sessions Waters lavora su “Comfortably Numb”, il mio capolavoro preferito, punto d’incontro inossidabile tra Waters e Gilmour, la rigira e la fa stare in piedi su equilibri differenti, che calzino maggiormente sul padre creatore. D’altronde questo gli ha riservato la vita artistica, di costruire una favola con una band privandolo di un incontestabile lieto fine. Deve averci pensato Roger, magari è solo questo il punto, “qual è il mio lieto fine?” E se avesse pensato “nostro” anziché “mio”?
Ebbene sì, ha pensato di voler dare ossigeno a qualcosa di vecchio che evidentemente scalpitava per trovare un’ulteriore collocazione. Magari non ce n’era il bisogno per la maggior parte di noi. Ma se lo decide l’autore direi di approfittarne, di fidarci del suo flusso creativo e di capire cosa abbia da dirci. Sceglie quindi il più astratto dei dischi del periodo d’oro, il più vago. Non ci sono assenze, metafore animalesche o muri da buttare giù. Quelle sono cose terrene. Alziamo gli occhi e guardiamola, che lei, la luna, è sempre lì da allora, insieme al suo lato oscuro che magari non vediamo ma sentiamo, eccome se sentiamo. Siamo noi ad essere cambiati e forse è il caso di aggiornare la prospettiva, vero Roger?
Questo mi aspetto. Questo è il motivo per cui un Gilmouriano come il sottoscritto (caratterialmente più che artisticamente, per la dolcezza della sua voce più che per la sua grandezza chitarristica) ha aspettato col sorriso sulle labbra questo 6 ottobre, per poter ascoltare finalmente tutto. Lo prendo come un dono, come un non detto del 1973, semplicemente perché certe cose si scoprono dopo.
Gus Seyffert, al basso, sintetizzatori e chitarra, Joey Waronker a curare (maestosamente) l'aspetto percussivo, Jonathan Wilson alla chitarra e sintetizzatori vari, Robert Walter al pianoforte e Jon Carin alle tastiere e lap steel. Accanto a questo team rodato scopriamo quattro preziosissime nuove collaborazioni: Via Mardot, americana e polistrumentista, al theremin, Azniv "Bedouine" Korkrjian, cantante siriano americana, Johnny Shepherd, organista della chiesa battista di Shreveport in Louisiana, Gabe Noel stimato giovane arrangiatore e violoncellista a curare per l'appunto gli arrangiamenti d'archi. E poi c'è lui, Roger Waters. A tessere le trame della produzione insieme al già citato Gus Seyffert e a mettere quell’elemento inconfondibile, la sua voce, vicina da vibrarti sotto pelle e le sue parole, tante parole.
A leggere questa formazione si respira tanta America, cantautorale, blues, un pizzico di sapore mediorientale, ma anche tanta fresca contemporaneità con gli arrangiamenti di archi che si preannunciano importanti. La pedina in una scacchiera che potrebbe sostenere gli equilibri in maniera decisiva. “Speak to me”. Il cuore, le parole, eccola l’occasione di gettarci nel loro mondo.
«The memories of a man in his old age»
La voce cavernosa e rugosa di Roger ci accoglie e si presenta, ci parla di vita e di morte come se si contrapponesse il dolce al salato, e lo fa citando le parole di “Free Four”, canzone dei Floyd del 1972, firmata dallo stesso Waters e contenuta in Obscured by clouds. La consapevolezza è alla base di quest’invito e mentre la sento capisco che proprio “Speak to me”, lei che rappresentava nella sua innocenza l’aspetto musicalmente più debole del disco originale costellato di capolavori (ma concettualmente avanti anni luce nel suo ruolo di apripista) oggi diventa lo spunto per infondere il concetto, forse il nocciolo stesso dell’operazione e il contenitore delle parole di benvenuto.
«So, all aboard for the American tour»
Come se nel 1973 avessero preventivato che quella scatolina iniziale sarebbe potuta servire non solo in quel momento, ma anche in futuro, un piccolo salvagente, utile in quel momento più ad aiutare la salita di voce di Clare Torry ad avere un prima ed a scivolare maestosamente dentro “Breathe”. Ed è curioso che strumentalmente si crei un picco sonoro molto simile, che però si blocca all’improvviso.
«But mind how you go_And I can tell you 'cause I know. You may find it hard to get off»
Chitarra acustica, che sembra bastare per reggere l’armonia, anche solo facendo cantare una nota nel secondo accordo. Ci siamo. La canzone prende i suoi tempi. Un sottofondo sonoro ci fa vedere attraverso il vetro appannato, appena in tempo per gustare il sapore di ciò che ci attende. Batteria Beatlesiana, Beckiana, o come vogliamo vederla, comunque quella in cui i fusti sordi e tondi bastano ed avanzano a colmare l’assenza di un charlie educatamente evitato. E ora che lo noto, Joey Waronker è stato proprio batterista di Beck, quindi il rimando è speciale. Il momento allunga le attese tradendo l’abituale entrata di voce. E, proprio quando non te l’aspetti, a metà del giro successivo sul cambio di accordi che preannuncia la fine dell’introduzione, entrano gli archi e lei, la calda voce di Roger.
«You are the angel of death. And I am the dead man’s son. He was buried like a mole in a fox hole. And everyone's still on the run»
E davvero, il ritorno a chiosa dell’ultima parte mancante di “Free Four”, non può che lasciarti un brividino con l’eco nella tua mente di quell’“On the run”, e lo sai che dopo toccherà a lei, mentre la strofa di “Breathe” comincia. Voce all’ottava bassa, non poteva essere altrimenti. Avrebbe stonato con il mood sonoro, con il concetto espresso dalla voce parlata. Siamo a casa. Ed è proprio in questo momento che parte un suono sintetico sottilissimo che fa le veci di un rumore rotto, innocuo e controllabile nel tempo. Un suono meraviglioso che prende la canzone e la rende memorabile, presente. Organi, calma, voci femminili lontane ma fondamentali per tirare su quanto basti il battito del cuore nella voce di Roger, naturalmente sofferente e bisognosa di un bastone. Niente di più bello di questo colore vocale meravigliosamente trattato nel mix.
Scivoliamo con un piccolo trucco sul timing e sul pitch, che in questo disco mi sanno tanto di tempo e di spazio, verso l’attesa “On the run”. Parole, un sogno, è Waters che ce ne rende partecipi e siamo dentro ad un incubo, realistico, di chi ha visto la fine incappucciata arrivare a prenderselo. La canzone è una sorta di citazione di sottofondo, rispetto al primo piano che si prese l’originale, con quella sua forma (apparente) da prima canzone techno ad essere usufruita dal popolo. E con quella curiosa diatriba sulla paternità tra i due band leader, che è anche inutile stare a nominare. Sembra una citazione perché è probabilmente l’unica più facilmente riproducibile essendo basata su poche semplici mosse applicate ad un sintetizzatore. Eppure la citazione è lontana, è ripresa la canzone ma filtrata da qualcosa di odierno, da degli stop incidentati che giocano a scandire il tempo e il senso delle parole, del sogno. Il charleston non è così in primo piano, cosa che avrebbe donato un ingiustificato vigore. Una cassa continua entra e ci mostra le orme da seguire per finire su “Time”.
La canzone è chiaramente riuscita, posata, sempre nei toni che colorano questa versione Redux. Fusti di batteria, organo appena intuibile, un basso semiacustico che gioca a far sentire il suo timbro fra le semplici note. Waters sta sotto, le voci femminili gli svettano dietro come un’ombra col consueto compito di rendere giustizia alla dolcezza del ritornello e alla mancanza dell’ottava alta di Gilmour, è inutile far finta di niente. Eppure gli equilibri sono magistralmente tenuti a bada. Gli spazi abitualmente presi da echi di soli o melodie che ormai partano da sole nella nostra memoria e vengono quasi fischiettate da altri strumenti scelti con la massima cura, cosa che accade con una specie di voce Morriconiana, la cui melodia parte e ti tiene sospeso in aria, fino a quando non capisci che no, non è una voce ma un theremin, e siamo davvero in un sogno.
Di questo sogno fanno parte i suoni che giocano a fare i protagonisti, quasi ricordando che può anche non essere così importante atteggiarcisi, quanto prendersi le vesti e l’eleganza, senza dimenticarsi il messaggio. È un po’ tutto pacato, suonabile, non ci sono vezzi tecnici, un po’ come se tutti gli strumenti fossero paradossalmente nelle mani e nelle possibilità di un Roger ottantenne. I cinguettii fanno da ponte verso la successiva e attesissima “The Great Gig In The Sky”.
Ho pensato ripetutamente a come avrebbe potuto rendere giustizia a quel momento di strazio di cui si rese protagonista Clare Torry. Sono passato dal pensare che ci avrebbe messo una voce robotica a giocare ritmicamente con la frase che tanto è diventata celebre, magari dandogli in pasto parole nuove e importanti, ma lasciando stare la melodia, che la stessa turnista improvvisò. Ho pure pensato che Waters avrebbe potuto convocare la stessa cantante, chiedendole di giocare a sposare i nuovi toni pacati e chissà.
E invece “Dear Mr. Waters…”: siamo dentro una lettera. È Kendall Currie a scrivere, l’assistente del poeta Donald Hall, deceduto nel 2018. Roger ci recita questa comunicazione, mentre le note del piano di Robert Walters si addentrano nell’armonia confortevole di “The Great Gig In The Sky” e ci regalano un sospiro di Wright; la lettera contiene delle parole schiette, educate ma con quei toni che nascondo nella loro forma la voglia di condividere un pezzo di se stessi. La Signora Currie ci informa delle condizioni precarie del suo assistito, il quale vuole informare il Signor Waters della propria ospedalizzazione. Ci tiene inoltre a chiarire, specifica ancora, che non risponderà a nessuno.
“E questa la mia risposta a Kendall” ci dice Roger, quasi a costringerci ad una confidenza estrema.
Così le racconta che qualche sera prima durante il concerto di Zagabria aveva letto One Road, una storia di Don. E dopo averla condivisa con diecimila persone ed aver scandito la frase “There is only one road in Yugoslavia” ha fatto esplodere una fragorosa e genuina reazione. Ha condiviso la storia di Don e delle sue condizioni.
«There is only one road»
Eccolo il momento che mi immaginavo. Ci sono andato vicino, perché le parole importanti ci sono state prima, e il gioco, il legame con quel solo di Clare Torry viene tenuto magistralmente in piedi da un suono, una voce effettata, disimpegnata, non straziata, ma quasi impegnata a giocare con quel tema, rendendo onore all’unica cosa improvvisata, tra tanti accordi e parti scritte di tutto quell’album. Dopo 50 anni quel controverso e estasiante contributo fa parte (forse più di ogni altra cosa, nell’immaginario comune) della canzone e della scrittura del disco (cosa per cui sono arrivati persino in tribunale). “The Great Gig In The Sky” diventa una confidenza, un’intimità condivisa con tutto il mondo. Eppure, per la solennità con cui è stata presentata, viene da portare rispetto e trattarla come un segreto, quasi da scriverne sotto voce. Quanto sarà assurda questa cosa, dopo che è stata messa nero su bianco su di un disco? Ma è così.
Quindi si congeda da Don, lo saluta, che riposi in pace, adesso che è arrivato al punto a cui voleva; “The Crossroads”. Con questa parola ci lascia. Curioso che questo incrocio, questo collegamento, se da un lato mette insieme due momenti difficilmente accostabili tra di loro, da un altro tira in ballo Robert Johnson e la sua “Crossroads”. E l’inizio di “Money” lo mette definitivamente in chiaro.
Siamo nel blues, “Money” lo è sempre stata. Un blues tutto sul I grado che salta il IV e va diretto alla risoluzione V-IV. Sempre con quel suo 7/4 a tenerci rigorosamente stretti. La batteria cambia accenti sul rullante rispetto all’originale facendo diventare il momento una via di mezzo fra Dr. John e Tom Waits e la cosa è un piacere. Non posso poi non pensare a Solomon Burke e a “Don’t give up on me”, tributo alla musica popolare americana, omaggio al cantautorato rivisitato in chiave soul da uno dei suoi Re. E sottolineo quanto la quantità di Tom Waits uscita in questa versione sia notevole. Voce grave, profonda fino a sentirne le emozioni nelle rughe, sia che si contrasti con le melodie e parole note, che prendono un sapore perfettamente adiacente alla versione cui ci troviamo davanti, sia che si tratti della parte di testo nuova, ironica e grottesca che prende gli spazi teatrali e recitativi, descrivendo un personaggio a bordo ring, al proprio angolo, disposto a tutto pur di arrivare, tanto da scendere a patti col diavolo.
La cosa non fa che mettere ancor più nero su bianco il legame con Robert Johnson, che a quanto pare se ne intendeva di patti col demonio. Non manca niente, gli spazi sono ampi e comunque non ti senti mai lasciato solo; è una bella sensazione stare dentro questo disco e crescerci insieme.
“Us And Them”, il vero marchio compositivo (insieme chiaramente a “The Great Gig In The Sky”) del grande e compianto Richard Wright. Tutto scorre come previsto, voce all’ottava bassa, intima, arrangiamento all’osso, aria intorno ai silenzi, organo, direi contrabbasso o basso senza tasti, batteria appena toccata che mi fa pensare incredibilmente a “Something in the way”, tutt’altro territorio, ma forse neanche così tanto.
E il ritornello, che scioccamente mentre lo aspetto me lo immagino sommesso e sofferente; certo che no, il solito trucco delle voci alte intorno, gli archi liberi di colorare, di inventare e si pensa alla Francia, chissà perché, sarà il gusto dei loro fraseggi, sarà l’aria da chiesa che lo stesso Antonioni, cui era stata proposta nel 1969 con il titolo di “The Violent Sequence”, sentì potente tanto da scartarla. Fatto sta che il ritornello sale potente e rende giustizia senza l’uso di distorsori, ma solo con suoni puliti e ben amalgamati grazie all’arrangiamento. Si può parlare di guerra con le stesse parole di cinquant’anni prima, è una tristissima presa di coscienza, non è cambiato niente. E gli ottant’anni di Roger sono definitivamente convertiti in esperienza, anche in quella che per puro spirito critico definirei la canzone più debole del disco. Ma passatemi il termine, più che debole è scheletrica. E forse era giusto proporcela così, visto il messaggio di cui è portatrice e il timbro di chi ce la propone.
Si risolve in quell’accordo che ci ricorda “Breathe”, ma non del tutto; ah giusto, è il suo reprise, in altra tonalità, è “Any colour you like”. Si viene subito spinti in un’altra confidenza, ma non concettuale come avvenuto in “Gig in the sky”, quanto proprio di strumenti e suoni. Il basso si prende delle libertà, lentamente sempre di più, ma non tecniche quanto espressive. È Roger. Una piccola nota leggermente stonata e appena trattenuta senza che nessuno rimedi con mestiere aggiustandone l’intonazione, mi conferma che siamo di fronte all’unica persona di tutto l’entourage in grado di poter fare una cosa del genere e riuscire a farla essere preziosa. E quelle che seguono sono le cose più belle di basso di tutto il disco, finalmente grintose, identitarie e riconoscibili. Che bene che fa questo cameo.
Ogni reprise contiene il nocciolo di un concept, il suo tornare ti fa capire che siamo quasi alla fine, che il cerchio sta per chiudersi e lo stai osservando. Il sole che tramonta, lo vedi, lo pensi che sta scomparendo oltre l’orizzonte ed è già tardi. Quindi la presenza viva della mano di Roger, alle prese (dai crediti) anche con un sintetizzatore, diventa fondamentale per l’esito di questa camminata fatta insieme; non poteva lasciarci da soli sul più bello. Tanto per non farci mancare niente prende parola, scherza coi colori, coi giochi di parole, con l’arcobaleno, e non posso non pensare alla copertina del 1973 e a quella di questo Redux, dove l’originale viene vista di riflesso dall’occhio di un cane. Penso istantaneamente che ce lo aveva preannunciato Waters nelle parole di “Speak to me/Free Four”: «You get your chance to try in the twinkling of an eye» e sarà pure rapido il battito di un occhio, ma comincio a capire che Roger abbia voluto fermare quel momento e offrircelo.
Waters parla e gioca con qualche colore accentuato più dell’altro e su “Pink” ci stringiamo in attesa del momento che sta per arrivare, che tanto lo so che mi strizzerà. E sì Roger, mentre elenchi i colori mettici anche un “Any colour you like”, “ogni colore che ti piace”, la citazione nella citazione che in tre parole ci ricorda che ci sei e sei lì, tutto sommato, per noi e per darci la scelta di emozionarci o meno anche con queste cosette. «Black – Rainbow –yeah… Rainbow…» Accordo maggiore e ci siamo, “Brain Damage”.
«Why don’t we re-record Dark Side Of The M...» e la voce affoga in una risata. «He’s going mad…». Perché non ri-registriamo Dark side…? Sta diventando matto…
Eh sì, tu ridi, ma io penso a Sid e a “The Madcap laughs”. No, non poteva mancare.
“The lunatic is on the grass”. Niente da dire, fa tutto lei. O lui. Siamo negli ultimi due brani, lo zampino finale e più grande di Roger nell’opera, che traghetta e decide la sensazione in cui lasciarti. Ma insomma lo sappiamo, non c’è scelta. Perché se usi queste parole, se tiri le fila, se gli archi fanno questi lavori a fine ritornello, se l’organo ci tiene inchiodati e vibranti, se la band in cui sei comincia a suonare accordi differenti, ti vedrò nel lato oscuro della luna. Sei tu a dirlo, dobbiamo solo crederci e finirci. Le emozioni diventano il nostro scettro a cui non possiamo che aggrapparci.
«And if the band you’re in starts playing different tunes. I’ll see you on the dark side of the moon»
Quattro colpi che storcono l’accento da semplice a sincopato ed ecco che siamo in un tappeto di emozioni. Quattro accordi che si accavallano, suono che vibra e ci spreme, gli ingredienti cominciano tutti insieme e sembra troppo da sostenere, le voci che si accodano e cominciano subito, non c’è ritornello da sostenere stavolta, “Eclipse” È il ritornello di The Dark Side Of The Moon e di questo Redux, questo tributo, chiamiamolo come più ci piace.
Roger Waters ci ha portato con sé in questo viaggio, un giro del paese a bordo del carro, un’onorificenza, tutti “aboard for the American tour”. Un lavoro sublime, certosino, qualitativamente impeccabile, che oltre a riempire uno spazio vuoto, cosa che dimostra il suo bisogno di esserci ed il nostro di beneficiarne, aiuta a capire il valore definitivo ed intrinseco di un disco che parla di astratto, della sua lunga vita e di morte, dell’importanza di riflettere sul peso delle proprie parole nel futuro, di aggiornare un concetto o semplicemente mettere nero su bianco che tu, Rick, Dave e Nick avete avuto una folle ed infinita ragione ad azzardare un dialogo con la luna.
«What’d you ever say today. When you’re in the Milky Way»
(Barrett, Milky Way)