Nella top list dei dischi pluri annunciati ed eternamente rimandati, al punto tale da essere divenuti delle vere e proprie chimere, degli autentici “Machiavelli” del settore musicale (la citazione è per chi la sa cogliere) ci sono stati, nell’ordine: Chinese Democracy dei Guns N’ Roses e Fear Inoculum dei Tool (il cui titolo però lo abbiamo scoperto solo quando hanno deciso effettivamente di farlo uscire). Pubblicati entrambi dopo millenni di attesa, il nuovo sacro Graal degli appassionati è divenuto immediatamente il nuovo album dei Cure, sebbene le dichiarazioni sempre più strampalate e contraddittorie rilasciate da Robert Smith nel corso degli anni lasciassero presagire che, al contrario dei casi appena citati, questa uscita sarebbe rimasta in eterno un prodotto della fantasia malata dei fan.
Un disco desiderato, certamente, ma anche fortemente temuto, se si considera che gli ultimi lavori del gruppo, ben dilazionati nel tempo come si confà alle leggende che non hanno più nulla da dimostrare, furono ben lontani dall’essere considerati accettabili.
Alla fine, quello che non ti aspetti è accaduto. Dapprima c’è stato un tour nelle cui setlist hanno trovato spazio permanente diversi nuovi brani (per la verità già un paio di essi erano comparsi sporadicamente anche nei concerti del 2017); qualche mese dopo, un annuncio criptico sul sito ufficiale del gruppo, che una volta decifrato ha rivelato titolo e data di uscita del nuovo album. Il 26 settembre, infine, come prova definitiva che non si trattava dell’ennesima sparata del proprio leader, è uscito il primo singolo, “Alone”.
Non si trattava di una novità vera e propria, d’accordo, il brano era uno di quelli più suonati nei concerti e su YouTube lo si poteva ascoltare in millemila versioni. Ok, ma vogliamo mettere l’emozione di averlo per la prima volta disponibile in una versione ufficiale registrata in studio?
A partire da quel momento il conto alla rovescia è ufficialmente iniziato: il 1°novembre il tanto sospirato nuovo disco dei Cure uscirà, e saranno passati 16 anni e qualche giorno dall’ultimo, terrificante, 4:13 Dream.
A tre settimane dal compimento delle attese, quindi, eccoci convocati a Milano, nel quartier generale della Universal, per un ascolto in anteprima. Ce lo hanno fatto sentire una volta sola, accompagnato da brevi liner notes con le informazioni essenziali per ogni traccia. Comodamente seduti, immuni da ogni distrazione, con la musica sparata a tutto volume dagli altoparlanti, abbiamo senza dubbio goduto di un’esperienza superiore a quella che avremmo potuto fare a casa nostra, in compagnia di scarni file mp3. Si è trattato ugualmente di una sola session e dunque quella che segue non può essere una recensione, bensì una somma di pensieri sparsi che il primo contatto con questo lavoro ha suscitato.
Partiamo dall’inizio: dopo tutte le anticipazioni, i retroscena, le dichiarazioni sul fatto che di dischi ne sarebbero arrivati addirittura tre, Robert Smith e la band (che per inciso è sempre la stessa degli ultimi anni, vale a dire Simon Gallup al basso, Reeves Gabrels alle chitarre, Roger O’ Donnell alle tastiere e Jason Cooper alla batteria) hanno deciso di asciugare il più possibile, riducendo a otto canzoni la ipotetica mole di nuovo materiale accumulata nel corso degli anni. Si tratta però di un lavoro solo in apparenza sintetico: la lunghezza media piuttosto elevata delle composizioni, come è stato spesso nel loro stile, ha fatto sì che ci trovassimo di fronte ad una durata complessiva di poco inferiore all’ora.
Secondo fattore da sottolineare: la copertina, rivelata nei giorni scorsi, rispecchia in pieno il contenuto musicale. Songs of a Lost World è un monolite scurissimo ed ultra compatto, un ammasso di materia che sembra uscito direttamente da un sottosuolo dostoevskjiano, una riflessione amara e disillusa sugli ultimi istanti di una vita arrivata al capolinea. Avete ascoltato “Alone” ed è probabile che, quando questo scritto verrà pubblicato, sarà già fuori anche il secondo singolo “A Fragile Thing”; sapete dunque benissimo di cosa sto parlando. Vi assicuro però che, per quanto trascinato e depresso, quel brano che già conosciamo è nulla se paragonato ad una buona metà dei contenuti di questo disco. I Cure, nonostante possa sembrare folle affermarlo, paiono tornati ad un livello di disperazione toccata solo ai tempi di Faith e Pornography. Attenzione che non sto parlando di qualità delle canzoni ma semplicemente di mood generale: da questo punto di vista, il nuovo album ha tutto il sapore di un ritorno alle origini o quasi.
È tale il carattere depressivo del singolo, che in diversi si sono lasciati andare a inquietanti dietrologie: non è che Robert Smith è malato e questo sarebbe il suo testamento spirituale? Che cosa significherebbe esattamente quel “The end of every song” ripetuto incessantemente nel ritornello del brano (e ripreso anche nel pezzo conclusivo, dal titolo alquanto paradigmatico di “Endsong”)?
Vero che si tratta di canzoni scritte anni fa, ma è vero anche che l’ascolto dell’intera scaletta rafforza la sensazione che si tratti del commiato del suo autore dall’esistenza. Ci sono tuttavia elementi per non essere così drastici: Robert Smith ha detto che l’aver compiuto 60 anni, nel 2019, avrebbe innescato tutta una serie di riflessioni sulla caducità dell’esistenza; in più c’è stata la morte del fratello, omaggiato in “I Can Never Say Goodbye”, un’altra di quelle regolarmente suonate nel corso dell’ultimo tour. È dunque lecito credere che, in un modo o nell’altro, per tutta una eterogeneità di motivi, questi ultimi anni abbiano portato il musicista britannico in territori che da parecchio non aveva avuto più occasione di esplorare.
Da ultimo, il discorso produzione, e credo che quando il disco uscirà, si tratterà dell’elemento maggiormente divisivo tra gli ascoltatori: il lavoro di Paul Corkett (già dietro la consolle in Bloodflowers) assieme allo stesso Robert Smith in questo senso appare abbastanza controverso. L’impronta generale risulta piuttosto piatta, priva di sfumature e dinamiche, in quanto tutti gli strumenti sembrano sparati a mille, senza troppa cura dell’equalizzazione. La batteria, in particolare, esce molto secca, mentre il basso e i soli di chitarra sono sparati fuori a mille. Il feeling generale è quello di un disco poco lavorato (assenza quasi totale di overdub, se si escludono le seconde voci e qualche orchestrazione realizzata presumibilmente attraverso le tastiere) tanto che in più punti si ha la sensazione di trovarsi davanti ad una pre produzione, se non addirittura ad una versione demo. Si tratta ovviamente di una scelta precisa e non nego che come tale possieda un proprio fascino; la band non ha però mai vestito in questo modo le proprie composizioni, per cui immagino che ci sarà da discutere.
Entrando invece nello specifico del contenuto musicale, qui di seguito un rapido track by track, frutto del solo primo ascolto, senza nessuna pretesa di esaustività:
“Alone”: la conoscete già tutti, è inutile dilungarsi. Ha colpito per un ritorno insperato alle atmosfere che hanno reso grandi i Cure ed effettivamente ricorda a tratti, con le dovute proporzioni, il mood di Disintegration. In questi giorni la speranza è stata quella che il resto del disco potesse essere all’altezza; nel mio piccolo vi confermo è così.
“And Nothing is Forever”: si parte con leggeri accordi di pianoforte, che vengono immediatamente orchestrati. È la solita intro lunga a cui questa band ci ha abituati da tempo, con la chitarra di Gabrels che, quando entra, riempie parecchio il paesaggio diventando via via magniloquente. L’ingresso di Robert nel brano evoca una certa sensazione da “Plainsong” ma, andando avanti, ci si rende conto che le linee vocali che ha cucito sul pezzo assomigliano molto di più a “Just Like Heaven”, sebbene il ritmo sia decisamente rallentato. In ogni caso si tratta di un pezzo molto meno scuro del precedente, più dolce e malinconico: il testo parla della promessa, non mantenuta, ad una persona di essere presente nel giorno della sua morte, e man mano che si procede, si avverte tutto l’affetto ed il dolore per il misterioso dedicatario. Bello il finale che si svuota di tutto, lasciando in primo piano solo voci e orchestrazioni, una soluzione che sarà adottata anche altrove. È forse una di quelle più derivative ma non c’è dubbio che sia ispirata.
“A Fragile Thing”: come già anticipato, è stata scelta per essere il secondo singolo. Anche qui si parte col pianoforte, ma la batteria entra subito, seguita poco dopo da una sezione ritmica molto decisa. Il cantato arriva prima, stavolta, ed è molto incalzante, con un ritornello molto catchy, che tuttavia si trattiene appena un attimo prima di virare verso il Pop. L’atmosfera è alquanto sospesa, potremmo essere dalle parti di Bloodflowers, senza esagerare. Incisivo il break strumentale al centro, caratterizzato da un bel fraseggio chitarristico, e sempre bene in evidenza il basso di Simon Gallup.
“Warsong”: a memoria, credo che i Cure non abbiano mai affrontato il tema della guerra prima d’ora. Qui gli archi sono lenti, funerei, doppiati da una chitarra che possiede le stesse caratteristiche. Quando entrano basso e batteria l’attacco è potente, quasi epico, dopodiché sale tutto d’intensità e diventa un caos primordiale di cacofonica bellezza. Il cantato si muove su questo Wall of Sound e l’effetto che si crea è notevolissimo, tirerei in ballo Faith o Pornography se non temessi di essere ridicolizzato. Forse è meglio riaggiornarsi dopo qualche altro ascolto, ma al momento è una di quelle che mi ha emozionato di più.
"Drone:Nodrone": una sera Robert Smith era fuori in giardino, quando ha visto un drone volargli sopra la testa e si è sentito inquieto, violato nella sua privacy. La canzone intende ricreare questa esperienza e lo fa con feedback stridenti, chitarre distorte, un basso massiccio ed una batteria molto riverberata. A stemperare tale furia, c’è solo il piano di O’ Donnell, che si insinua discretamente tra gli spazi lasciati dagli altri. In generale c’è un bel groove, e quando ad un certo punto entra il Synth, si crea quell’effetto ruffiano che c’era anche in alcune cose di Kiss Me Kiss Me Kiss Me. Bellissime le linee vocali, volutamente immediate ed ammiccanti, ottimo il solo di chitarra che arriva nel finale. È uno dei pezzi più immediati ma in sottofondo c’è sempre un non so che di disturbante, quasi fosse un segno di quella difficoltà ad accettare il reale che è un altro tema sviluppato nel testo. Anche qui, diamoci tempo ma per ora è un’altra delle mie preferite.
“I Can Never Say Goodbye”: chi ha assistito all’ultimo tour la conosce già benissimo, ma anche su YouTube girano parecchi filmati. È il brano che Robert ha dedicato a suo fratello maggiore, scomparso nel 2019. L’intro si basa su un pattern ripetuto, quasi ossessivo, il cantato e sofferente, quasi senza melodia. Nel testo spicca il famoso verso shakespeariano “Something wicked this way comes”, mentre le chitarre fanno davvero un gran lavoro, prima di lasciare posto ad un finale piano e voce che sa molto di ultimo commiato.
“All I Ever Am”: più asciutta e concisa delle altre, si sviluppa attorno ad un riff molto immediato e ad un ritornello che è forse il migliore del disco. L’atmosfera è intesa è drammatica, come nei momenti migliori di Wish. C’è un intermezzo strumentale di una certa consistenza, dove dialogano tastiere e chitarre. Come altrove, il suono della batteria risulta fin troppo secco e un po’ fuori rispetto al resto. Probabilmente l’unico difetto di un brano altrimenti privo di sbavature.
“Endsong”: è costruita per essere il vero e proprio masterpiece del disco e non a caso è posta alla fine, ideale chiusura del cerchio, con la ripresa di quel “the end of every song” di cui si parlava anche in “Alone” (lo stesso Smith ha chiarito che i concept delle due canzoni sono pressoché identici). L’intro marziale, le tastiere che ricamano linee gelide, la canzone si trasforma presto in un mid tempo ruvido, con la chitarra di Reeves Gabrels che si inserisce a tratti, sempre più affilata. Una volta trovato il ritmo, la band porta avanti lo stesso giro melodico per sei minuti buoni prima che entri la voce, record assoluto nella sua produzione. Il cantato ha l’effetto di calmare un po’ la marea degli strumenti e ancora una volta funziona benissimo, si muove addirittura con una certa eleganza. Il finale però incombe e, man mano che si avvicina, il mood generale si fa più scuro. “It’s all gone”, è il verso ripetuto parecchie volte, come fosse un mantra. Non esattamente una chiusura rassicurante, ma forse è ingenuo temere il peggio: dopotutto Robert Smith non ha fatto mistero delle difficoltà degli ultimi anni e, particolare non trascurabile, i Cure hanno sempre fatto della loro depressione la loro migliore cifra stilistica. In ogni caso questo è un pezzo di grandissima classe, destinato, e qui vorrei prendermi il rischio, a divenire uno dei brani migliori nella storia della band.
Songs of a Lost World uscirà il 1 novembre e forse sarà bene rimandare i giudizi dopo ripetuti e attenti ascolti. Detto questo, l’anteprima che ci è stata offerta ha lasciato intravedere una band che probabilmente nessuno si aspettava di ritrovare così in forma, non dopo gli ultimi fallimentari lavori, e le voci confuse e continuamente disattese a proposito di un nuovo album sempre più fantomatico. E chissà mai che, ora che il ghiaccio è rotto, ricompaiano magicamente anche le canzoni scartate, così da arrivare effettivamente a pubblicare tre dischi, come adombrato in un passato non troppo remoto…