Edgard Varèse (1883-1965), americano di adozione ma francese di nascita, è la figura più felicemente trasversale ai due campi della nuova avanguardia, la musica concreta e quella elettronica. Ricordiamo le definizioni: “Nella musica concreta allo stato puro il materiale sonoro di base è sempre precostituito: suoni e rumori provenienti da qualsiasi contesto […] cioè a dire ricavati dalla quotidianità, dalla natura, dalla tecnologia come da voci e strumenti tradizionali, vengono registrati […], immagazzinati e successivamente elaborati mediante la tecnica del montaggio e più o meno denaturati […]. La musica elettronica pura si serve solo di suoni prodotti attraverso generatori di frequenza, di rumori, di impulsi, di onde. I suoni che ne derivano sono totalmente nuovi…”[1]
Alla fine degli anni Cinquanta la musica concreta verrà, di fatto, assorbita da quella elettronica: la distinzione opera oggi solo in ambito storico. Varèse ricade, per una questione puramente cronologica, nell’ambito concreto (considerando, grossolanamente, i due campi dell’avanguardia): “[egli] è fortemente interessato […] a un processo che ha di mira una più forte partecipazione del rumore nella musica: questa è l’estetica futurista”[2]; tuttavia, la sua composizione del 1950, Déserts, per orchestra e nastro magnetico, e quella successiva, Poème électronique (1958) mostrano come Varèse fosse in grado, partendo dalle premesse estetiche di Russolo, di rinnovare la propria arte sfruttando le recenti acquisizioni tecniche in uso presso le due scuole di New York, quella di Cage (Music for magnetic tape) e quella di Ussachevsky-Luening (Tape-music).
Egli dimostrò così un’attenzione notevole per i pionieri italiani (in una lettera del 1930 scrive, a proposito dell’intonarumori di Russolo, ribattezzato russolophon in Francia: “È con il più vivo interesse che ho ascoltato e studiato il russolofono. Sono sicuro che le possibilità che esso offre e la facilità del suo impiego gli procureranno fra poco un posto nell’orchestra”), che gli consentirà di adire le vie più impervie del concretismo e del rumorismo fino ad avvicinarsi, quando la tecnica lo permise, ai primi esperimenti elettronici (superando così il padre del concretismo, Pierre Schaeffer, che rimase scettico, ad esempio, sui primi magnetofoni).
La libertà di Varèse (primo maestro di Zappa), il suo disinteresse per il pubblico, vengono testimoniati dall’opera capitale Ionisation (1924), per soli strumenti a percussione, uno dei primi tentativi di fondare (senza ricorrere alla casualità) una nuova “sfera uditiva” che preterisca qualsiasi tipo di imitazione: i suoni-rumori non rimandano a nessun tipo di fonte riconoscibile (come volevano Russolo e Schaeffer), sono slegati da ritmi e timbri tradizionali (anche dalla percussività primitivista) ma “lo spazio sonoro è organizzato con molta coerenza, si condensa in sezioni caratterizzate da talune preminenze timbriche, dal progressivo rilevamento di aree sonore concatenate logicamente”[3].
Il successivo Intégrales (1926) conferma che la melodia è ridotta a puro evento: può ‘accadere’ fra i numerosi eventi sonori (compresa una citazione del Bolero di Ravel!), ma ha perso la propria funzione eminente; ogni suono-rumore è materia musicale sottratta alle convenzioni storiche – qui operano nuove forme “mille miglia lontano dall’eclettismo disinvolto”[4] e dal caso.
Il suo capolavoro rimane però Arcana (1927, per grande orchestra) con reminiscenze, digerite, dello Stravinsky de Il rito di Primavera; dirà il critico Lawrence Gilman: “In questa musica vi è presagio e segreto, uno strappo di catene, un battito d’ali. E’ bene ascoltarla ed esserne scossi”. Ritmi martellanti, bombarde strumentali, una sensazione angosciosa da basso continuo sono davvero le purissime stimmate dell’avanguardia, la nuova musica per l’uomo nuovo, ormai definitivamente scacciato dal proprio ruolo di signore della terra e dei cieli.
[1] Armando Gentilucci, Introduzione alla musica elettronica, 1972.
[2] Kevin Prieberg, Musica ex machina, 1963
[3] Armando Gentilucci, Guida all’ascolto della musica contemporanea, 1969
[4] Ibid.