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REVIEWSLE RECENSIONI
16/11/2019
Lower Dens
The Competition
Un discreto disco basato nella maggior parte degli episodi su una scrittura ben fatta, un messaggio chiaro e tondo ed un arrangiamento quasi sempre adatto a valorizzare il tutto e ad incanalarlo nel giusto circuito.

Ascoltavo proprio di recente – nella struggente ricerca personale di qualcosa di simile alla verità – una video intervista al filosofo luminare Umberto Galimberti nella quale rifletteva sulla struttura sociale in cui viviamo che non guarda più in faccia le persone, quanto le loro prestazioni, sia a livello sociale, lavorativo ma anche scolastico: e concludeva sulla perdita d’importanza della soggettività rispetto all’efficienza, alla produttività. Cosa che porta tutti noi, consapevolmente o meno a vivere in una costante e sottile lotta di prestazioni, diffidenza verso il vicino che può essere più produttivo, per portarci ad una competitività costante.

Questo è un aspetto che mi ha incuriosito dell’album dei Lower Dens, alla centralità di questo tema ed alle conseguenze che portano nella reazione che si ha di fronte al manifestarsi di un pensiero sotto forma di scrittura. Jana Hunter, band leader e songwriter ha cercato di sottolineare un aspetto del presente tanto sottile quanto macroscopico nella sua responsabilità delle lotte sociali e invisibili del nostro oggi. E questo aspetto mi ha colpito ed incuriosito positivamente da subito.

The Competition, fuori a settembre 2019, è la quarta uscita discografica dei Lower Dens, giunto a quattro anni dall’acclamato precedente Escape From Evil.
È una sorta di DREAM DARK POP, il genere in cui sono sfociati al quarto tentativo.
Perché c’è il tappeto sonoro comodo e ben radicato nella strumentazione di inizio anni ottanta presa e registrata nel 2019, c’è la dolcezza della voce di Hunter, sempre attento col suo falsetto a non urtare territori che sfiorino minimamente l’aggressività, c’è l’ossessione tradotta dalla ripetitività di un messaggio, di un suono, di un ritmo,  al sicuro nel proprio midtempo elettronico, c’è il POP con i suoi ingredienti invisibili ma riconoscibilissimi quando una scrittura ne è toccata.
In questo senso le prime quattro tracce di THE COMPETITION sono un perfetto manifesto dell’intero album.
#1 Galapagos, con la sua cavalcata ritmica appena accennata, strizza un occhio ad un richiamo senza infilarcisi del tutto e pur nella sua leggera cupezza lascia le porte aperte al senso del messaggio dell’intero album. Un ritmo nella voce che sembra un tentativo di emulare Bono Vox che durante Pop tenta di emulare il synthpop che non gli è mai appartenuto. Curioso. Alla fine di quest’orgia generistica, sembra Hunter l’originale, chiaramente.
#2 Hand of God, con quella sua chitarra morbida, cordosa e fresca in un tempo decisamente più veloce, riequilibra il morale dell’ingresso del disco e rende tutto più piacevole, pur non poggiandosi su una melodia proprio imperdibile.
#3 Two faced love invece è proprio bella, nonostante ributti giù il morale, ma non c’è niente da fare, scalda da subito. E più che scorre, il gioco a rincorrersi tra voce e chitarra si fa sempre più calzante in un tessuto armonico sapiente e per niente banale. Le canzoni sono ben scritte e arrangiate come il genere richiede senza ovviamente sbavature o banalità. C’è personalità accanto alla scrittura e ad un messaggio bisognoso di essere condiviso nella sua intima drammaticità.
#4 Young Republicans, in un piccolo gioco di parole che si spalleggia con Bowie, è la canzone col ritornello più pop e convincente delle quattro. Richiama il ballo, il canto, la condivisione anch’essa. È uno slogan vincente. Pur azzardando armonicamente una pericolosa vicinanza di note basse poco prima del ritornello che stanno per diventare incompatibili, ma invece non fanno altro che scricchiolare fino a creare il ritornello di cui sopra. Un bel momento di arrangiamento. Alla fine il più coraggioso dell’intero album.
La successiva #5 Real Thing - con questa folata da cuore in gola verso i Faith No More, sembra non aver paura della vicinanza di richiami così dichiaratamente anni ottanta. Una ballad senza paura, sfacciata, piena di ricami, intrecci, chorus ma anche con la faccia tosta di mostrarsi nuda e debole dopo il primo ritornello, intorno al minuto e mezzo in quel paio di giri che sono solo di passaggio e servono soltanto a qualcuno per prendere fiato, ed a nient’altro. Ed anche questi diventano una sottolineatura emozionante del disco.
Strofa successiva copiata e incollata, così come il ritornello, salvo lasciare l’incombenza di aprire la canzone ad un’uscita di scena delle frequenze bassistiche (o sintetiche) in vece di una sezione di chitarre steel fake che assolvono benissimo il compito ossigenante di accompagnare al finale.
#6 Buster Keaton è il primo momento di vera stanca che ricordo di avere avuto al primo ascolto, nonostante i tentativi ritmici e percussivi fatti per tenerla sveglia e in piedi.
Beh, le venature di Bono Vox sono sempre più presenti in Hunter, sono davvero evidenti. Più spinge in una direzione, più apre le porte alla somiglianza e non si può non notare questo aspetto.
#7 I Drive vede la partecipazione del cantante:3LON, col suo richiamo spudoratamente indirizzato a Morrissey. La canzone è musicalmente ben riuscita, smaccatamente pop in un paio di soluzioni corali, ma in tutta la sua funzionalità, finisce senza lasciare troppe tracce di chissà quale genialità. Discreta e pungente senza essere furba. Apprezzabile.
#8 Simple Life va spedita come un treno e si appoggia sul ritmo di #9 Empire Sundown senza apparentemente creare alcun problema.
Anzi il momento del disco comincia a battere cassa, nonostante la cura, nonostante il pumping delle frequenze che ci tengono in piedi. L’ossessività comincia a vincere ed a far spuntare il proprio dito che si vuol far vedere e non è mai un bene sulla tre quarti, a meno che non si punti generisticamente su quest’aspetto. Mi viene in mente quel tipico momento a fine serata in cui in una discoteca continuano a ballare 7 persone imperterrite. Non è un bel ricordo ma ha un suo fascino.
Il punto è che il segno positivo e memorabile è già passato e ne sento la nostalgia: le prime #5 canzoni dell’album sono settate su un livello sicuramente più alto; e poi sai che c’è? Questa abitudine ritmica di interrompere il regolare cassarullocassarullo con un doppio colpo di cassa immediatamente recuperato per non finire girati sul tempo, la prima volta mi ha fatto sorridere, la seconda ho fatto finta di non sentirlo, alla terza ho sperato in un errore, alla quarta ho soffiato. E #10 Lucky People è piena stivata di questi contraccolpi. Me ne farò una ragione ma ho visto il limite di un album in una debolezza e banalità di arrangiamento.
La maestosa #11 In Your House, giunge come un’onda sulla spiaggia sotto le direttive di uno slow tempo da ballad con piano largo, batteria sintetica che strizza l’altro occhio all’acustica, ed il tutto è perfetto per lasciare spazio alle melodie pulitissime di Jana, a dei Corni Francesi che ci infilano nell’imbuto di una cornetta e di un’orchestra. E degli archi, bellissimi, sulla cui natura reale o finta non mi interessa indagare, ci prendono per mano ed accompagnano fuori all’uscita, regalandoci il momento emotivamente più bello ed inaspettato del disco e dandomi anche un po’ di senso di colpa per aver dubitato proprio sul finire della riuscita totale dell’album. Ma che devo dire, sulla tre quarti l’album ha il freno a mano.
Curiosa la natura totalmente differente ed acustica dell’ultimo brano, con un sound diverso ed avvolgente, quasi a voler dire “Il prossimo ve lo faccio così”. Mi ricorda il finale di Have U ever been degli italianissimi synth pop In.visible, che anticiparono un cambiamento di territorio discografico a venire nell’ultima traccia del disco. Forse una cosa più frequente e spontanea di quanto si pensi.

The Competition mi ha stuzzicato con un’idea di descrizione di un’intimità fastidiosa di repressione sociale, con delle espressioni che emergono (“Born without souls or blood or skin/We’re young republicans” – “Let me take you up/To the light
If we see your heart/Then we know/It's real” – Galapagos – “A flood descends/The end of sensation/Just before you shake the hand of God”)
È un album ben concepito, ben costruito, da ballo notturno, e da canto pop, con solo una flessione in tre o quattro episodi che precedono l’ultimo guizzo finale e che rallentano un giudizio positivo e unanime.
Un discreto disco basato nella maggior parte degli episodi su una scrittura ben fatta, un messaggio chiaro e tondo ed un arrangiamento quasi sempre adatto a valorizzare il tutto e ad incanalarlo nel giusto circuito.


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