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REVIEWSLE RECENSIONI
The Classic Symptoms of a Broken Spirit
Architects
2022  (Epitaph)
IL DISCO DELLA SETTIMANA METAL / HARD ROCK ALTERNATIVE ROCK
8/10
all REVIEWS
14/11/2022
Architects
The Classic Symptoms of a Broken Spirit
Prepotentemente sinceri e immuni alle facili rassicurazioni. Velenosi e riflessivi. Brutali e raffinati. Gli Architects sono tornati con una veste nuova e i “classici sintomi di uno spirito infranto” si manifestano in un tripudio di metalcore, elettronica, voci pulite ma potenti, melodie magnetiche, drumming incalzante e riff frementi di energia furiosa ma sapientemente gestiti nelle loro dinamiche.

"Bowie dice che il miglior lavoro di un artista è il momento in cui i suoi piedi non toccano più il fondo e galleggiano sopra l'acqua", racconta Carter a NME dalla sua casa di Brighton. "Se sei troppo sicuro e i tuoi piedi sono sul pavimento, non stai facendo il lavoro giusto".

Sam Carter, frontman degli Architects, guarda questo video di David Bowie ogni volta che si sente in ansia o insicuro rispetto alla strada che sa per certo che lui e la band desiderano perseguire, ma che altrettanto sicuramente sa che sarà difficile percorrere, non per competenze o mancanza di idee, ma per la reticenza di un pubblico a cui i cambiamenti piacciono sempre poco.

 

Dopo l’incredibile trilogia di Lost Forever/Lost Together (2014), All Our Gods Have Abandoned Us (2016) e del magistrale Holy Hell (2018), che affrontava e sviscerava tutti i sentimenti (la rabbia, il dolore, la sofferenza, la spiritualità) relativi la malattia e la morte del compagno (e fratello del batterista Dan) Tom Searle, gli Architects avevano bisogno di voltare pagina. Dopo anni di tour dove ogni sera veniva mostrato e condiviso un dolore enorme e persistente come quello subito (e per cui diversi membri della band sono ancora in terapia), il gruppo si è reso conto che vivere nella sofferenza a scopo artistico stava diventando malsano. Carter stesso, in alcune interviste, ha sottolineato come la situazione stava rischiando quasi di portarli a diventare gli esponenti di un nuovo genere musicale: una sorta di “lutto-core”, dove ogni sera erano costretti a soffrire e parlare delle loro esperienze traumatiche.

Sono passati sei anni dalla morte di Tom e, per quanto questo sia un evento con cui continueranno a convivere per sempre come persone, non possono continuare a farlo anche come band, cristallizzati in eterno in una coazione a ripetere: gli stessi riff, la stessa brutalità, gli stessi archi, la stessa angosciosa afflizione. Era necessario andare avanti.

 

Con il precedente For Those Who Wish To Exist, pronto già da tempo ma pubblicato solo nel 2021 (causa covid e completamento del processo di lutto), l’evoluzione era già iniziata: erano cambiati i temi, ponendo il focus sulle battaglie che li accompagnano da una vita, quelle contro il cambiamento climatico e sul futuro nel nostro pianeta; erano stati invitati degli ospiti per iniziare a movimentare un po' le influenze; si era giocato ancora di più sul versante orchestrale, ma anche su quello più rock e mainstream, usando come fattore comune degli addendi quello della resa cinematografica dei suoni; si era iniziato a semplificare un po' le strutture, rendendole più dinamiche e meno magniloquenti.

Nelle prime interviste dell’anno scorso Carter si mostrava impaurito nell’offrire al pubblico canzoni come “Dead Butterflies”, attendendosi già pietre e improperi, ma fan e critica sono stati quasi tutti comprensivi e incoraggianti, mostrandosi orgogliosi e supportivi nei confronti di una band che stava andando avanti, uscendo da un periodo complicato e da un disco come Holy Hell, che è stato il loro Black Album e capolavoro.

 

La gente però, come Carter ha potuto notare molto bene, dimentica in fretta e perdona poco, e nel momento in cui, con l’odierno The Classic Symptoms of a Broken Spirit, Carter e gli Architects si sono spinti ancora più in là, seguendo il loro istinto e i loro desideri senza più farsi remore o darsi limitazioni, riuscendo finalmente a realizzare l’album che già da qualche anno avrebbero voluto far uscire (motivo per il quale viene pubblicato a solo un anno di distanza dal precedente), le accuse, le offese, i commenti insensibili e un pubblico e critica spaccati in due sono arrivati.

 

Di che modifiche ed evoluzioni si sta parlando? Sul fronte sonoro la matrice non cambia molto, gli Architects sanno essere riconoscibili e incredibilmente bravi anche giocando con più vigore con le pedine e la scacchiera che si trovano in mano, ma con The Classic Symptoms of a Broken Spirit semplificano ulteriormente i tecnicismi progressive e si allontanano ancora di più dalla furia metalcore che aveva caratterizzato le loro precedenti produzioni. La band rinnova inoltre la scelta di utilizzare tutte le sfumature del bel cantato pulito di Carter, tenendo la parte urlata per i momenti in cui serve da sottolineatura delle dinamiche e per la traccia finale (“be very afraid”), ma soprattutto riduce sensibilmente la maestosità degli archi usati massivamente negli album precedenti per abbracciare l’elettronica applicata al metalcore, inseguendo con curiosità l’approccio portato dai Bring Me The Horizon nel genere. Non stiamo parlando di un Amo 2.0 (2019), non siamo a quei livelli di elettronica e sperimentazione, ma troviamo una via di mezzo tra i singoli di quell’album, Sempiternal (2013) e Post Human: Survival Horror (2020), dove l’elettronica è sì presente, ma al servizio del comparto rock e metal. Tutto questo, in ogni caso, ancora completamente in salsa Architects: la magnetica batteria di Dan Searle e i maestosi e strutturati giochi chitarristici di Adam Christianson e Josh Middleton, incollati e impreziositi dal lavoro al basso e tastiere di Alex “Ali” Dean, sono ancora presenti in maniera pervasiva. Le atmosfere e i sentimenti che la band veicola sono immutati, lo struggimento violento persistente e l’headbaging catartico assicurato, ma stavolta accompagnati alla possibilità di cantare con più facilità tutti i testi sin dai primi ascolti.

 

Sul fronte estetico, invece, le modifiche riguardano solamente un look da frontman un po' meno canonico del classico “jeans skinny-maglietta tinta unita-e-scarpe da running” tipico dei metalcore boys (che comunque il resto della band continua a adottare), il quale prevede trucco, eyeliner e stivaletti anni Settanta (in risposta al personale amore di Carter per la musica del periodo). Una mise che Sam da tempo desiderava provare, di modo da potersi esprimere in modo più teatrale durante le esibizioni. Ora, al netto dei gusti soggettivi (e personalmente non mi piace affatto, lo confesso), se a 34 anni un cantante desidera salire sul palco o fare un video abbigliato e truccato come più lo fa sentire felice, chi siamo noi per impedirlo e addirittura giudicare lui e la sua musica per questo?

Si può concedere un po' di nostalgia per il merchandise però, questo sì, visto che la nuova svolta modernista e minimale non riguarda solo la copertina dell’album (completamente bianca, con tutti i titoli in minuscolo), ma anche il comparto magliette e affini che, da regine indiscusse di raffinato design atmosferico ed esoterico, sono diventate un crogiuolo di minimalismo Urban di cui forse non avevamo bisogno, ma che accettiamo per amore e rispetto della fase odierna.

 

I classici sintomi di uno spirito infranto sono quelli tra luci e ombre, che si insinuano penetranti e indiscreti nel cuore, nella mente e negli animi, veicolati da quelle che “living is killing us” descrive come “macchine di morte”: il mondo dei social network e delle nuove tecnologie, che spesso usano il vuoto che sentiamo nelle nostre vite per riempirlo in maniera tossica, promettendo compagnia ma generando ansie, fingendo di distrarci ma in realtà isolandoci e svuotandoci ancora di più, sino a rischiare di renderci simulacri omologati, dimentichi anche solo della forza della propria unicità. La rabbia, l’angoscia e l’amarezza sono narrate in maniera incalzante, energica, tragica, vivida, accattivante, fremente di energia furiosa ma veicolata in maniera composita e sapientemente gestita nelle dinamiche. Prepotentemente sinceri e ferocemente taglienti, scevri da ogni ambizione di regalare facili rassicurazioni. Velenosi e riflessivi. Brutali e raffinati.

 

Gli Architects non sono altro che dei mutaforma sfacciatamente liberi di evolversi e affermarsi come meglio credono, oltre che di divertirsi meritatamente nel farlo. Hanno le competenze, la bravura, la sensibilità e il coraggio di sperimentare tutte le idee che desiderano, perché per quanto possano cambiare foggia, altro non è che un abito indosso ad un’identità solida, riconoscibile e dannatamente talentuosa. The Classic Symptoms of a Broken Spirit, al netto di tutte le critiche o gli elogi che gli si possono attribuire, si attesta inequivocabilmente come uno dei migliori album dell’anno: uno di quei dischi che la prima volta che lo ascolti storci leggermente il naso, tra la seconda e la terza lo capisci, con la quarta ti innamori perdutamente e con le successive fai fatica a renderti conto che è un album nuovo, perché una parte di te è convinta ti faccia compagnia sin dall’adolescenza, come colonna sonora di qualsiasi momento della giornata, a testimonianza del fatto che quello è il suono a cui il cuore ritorna sempre.

 

Si dice che gli Architects siano un po' una religione: quando la abbracci, non la metti più in discussione e la segui fedelmente nella sua liturgia e nelle sue evoluzioni. Forse è vero, ma con i cinque di Brighton non è solo questione di fede, ad ogni album offrono prove e testimonianze concrete del valore della loro proposta, oltre che delle motivazioni per cui continuare ad essere fedeli seguaci del loro verbo.