In ambito compositivo/produttivo si tramanda una massima, una di quelle verità che in senso assoluto valgono sempre: per vedere se una canzone regge, se sta in piedi nelle fondamenta, spogliala dell’arrangiamento, accompagna la voce con una sola chitarra (o un altro strumento basilare) ed ecco che vedrai subito se funziona. Se emoziona. La canzone debole, strutturata male, dal cuore tiepido o fondata esclusivamente sull’arrangiamento, mostrerà tutte le sue pecche esponendo i propri nervi scoperti alla luce del sole. Viceversa, una canzone che funziona, oltre che stare in piedi con pochi mezzi, riuscirà nel migliore dei casi ad emozionare con quelli stessi pochi elementi.
Un esempio? “God Only Knows” dei Beach Boys è universalmente riconosciuta come una delle canzoni più belle di sempre. Arrangiata in maniera sopraffina, che strizza l’occhio all’orchestra senza chiamarla in causa direttamente. Tra batteria, percussioni, contrabbasso, basso, chitarre, archi, voce, fiati, flauti (…) ad occhio ci saranno una quarantina di strumenti. Eppure, se la suoni chitarra e voce, ti stende. Prende sempre un’altra dimensione, in prestito dall’ambiente in cui sei, addirittura dall’interprete che la sposa in quel momento.
È come se una canzone che funziona fosse sempre con le ali aperte, pronta a prendere la positività di qualsiasi nuova forma siamo sul punto di donarle.
Ecco, questa cosa nel disco degli Arctic Monkeys non accade, se non in un paio di casi isolati. Il resto del disco è meravigliosamente arrangiato, suonato in maniera impeccabile e sembra essere un piacere eterno ascoltarlo. Ma alla fine la mia fiducia ne è uscita incredibilmente sconfitta. Proviamo a capire perché.
Il settimo lavoro della band inglese capitanata da Alex Turner mette a segno un altro centro discreto. Dopo Tranquility Base Hotel & Casino, uscito nel 2018 e punto di svolta nelle sonorità e ispirazioni, gli Arctic Monkeys riescono a riprendere il discorso da dove era stato lasciato e dal decennio Sixty voltano verso il successivo Seventy, riuscendo stavolta a portarsi dietro non solo il vestito dell’epoca, ma forse anche un’ispirazione compositiva e di arrangiamento più personale e matura, grazie al lavoro di Alex Turner e del produttore James Ford.
Tocca a “There’d Better Be A Mirrorball” rompere il ghiaccio, primo singolo dell’album, seguita dalla successiva “I Ain’t Quite Where I Think I Am”, ultimo singolo uscito pressoché in contemporanea con l’album. Entrambe sono perfettamente ascrivibili come frutto dei soliti punti di riferimento. Se gli archi, le conga ed il basso muted della seconda mi stregano in un senso prettamente sonoro ma fino ad un certo punto rispetto al puro coinvolgimento compositivo, “The Car” mi prende per mano con maggiore convincimento, forse per merito di un arrangiamento impeccabile ed assolutamente trascinante. Riascoltare il singolo di anteprima all’interno dell’album, inoltre, mi piace sempre particolarmente: fa un certo effetto sentire una cosa che già conosci finalmente nel suo ambiente naturale, circondata dai brani in cui è sempre stata.
Poi partono i synth di “Sculptures Of Anything Goes” e capisco di essere dentro a qualcosa di superiore. Sarà il cambio di genere, che continua però a mantenere fede ai synth di un’epoca di fine Settanta. “Performing in Spanish on Italian TV_Sometime in the future”. C’è classe in esubero e me lo dimostrano quegli armonici in levare, che non capisco più se siano una chitarra o un piano sintetico, ma poco importa. La voce di Turner sembra ammaestrarci con una semplicità incredibile. “Anything goes_On the Marble stairs”.
“Jet Skis On The Moat”, pinkfloydiana fino all’offesa, è caratterizzata da una bella armonia che tiene in piedi il pezzo in maniera semplice, in attesa di quel ritornello in cui i suoni si incastrano tra di loro senza fretta, avendo l’accortezza di includere anche noi e la nostra pazienza. Tutto pare tornare. Sarà per quell’accordo in meno a fine giro che ti prende per mano, saranno le pause dello special, o quei mellotron che paiono spalancarti le porte e non tradirti mai, convincendoti di poter stare tranquillo, non importa che tu ti volti a controllare, le porte non si chiuderanno.
L’eleganza di “Body Paint”, secondo singolo, per la prima volta, con la complicità dell’espressività vocale, del suo suono e della quantità di parole, mi allontanano dal disco nonostante l’accuratezza degli arrangiamenti e di una bellezza che spicca in maniera sin troppo evidente. Uno dei casi in cui la bellezza non basta, perché quando perde la linfa che le permette di essere vita per ridursi a qualcosa di molto simile al puro estetismo, allora arriva al punto di rottura estremo e inaspettato: la bellezza può allontanarci.
La maniera di cantare di Alex Turner è sicuramente importante, oltremodo addobbata e curata. Molte parole, l’espressività tirata al limite fino a quel punto in cui un cantato sfiora il parlato. Mi immagino un padrone di casa vestito con la vestaglia del migliore velluto che ti parla, straparla e si destreggia negli atteggiamenti più sfarzosi, arrivando ad un passo dalla ridicolezza. Penso a Roger Waters di “The Wall”, per citarne il lato positivo, a quel qualcosa di legato al prog primordiale, ma dall’altra parte arrivo molto banalmente a pensare ad un musical qualsiasi ed a quella odiosa maniera di caricare le proprie parole oltre il loro significato, quasi a sforzarsi di portare chi ascolta in un punto deciso dall’interprete in cui evidentemente la canzone da sola non riuscirebbe ad arrivare. Ecco ciò che mi allontana.
E quindi non bastano più gli arrangiamenti beatlesiani, l’interpretazione vocale che odora del Floydiano Animals, il suono meraviglioso ed accurato come il trucco e parrucco del solito padrone di casa prima della festa. Tutto ciò ha un effetto devastante sulla mia recezione e sul mio sentimento. Ho perso la mia fiducia in loro e mi sento un poco smarrito rispetto allo schiaffo di bellezza che mi aveva ammaestrato sinora.
La fiabesca “The Car” tenta di rimettere le cose a posto, o comunque ci provo io ascoltandola e cercando chissà che. Il dialogo cui si assiste tra l’aspetto vocale, la sospensione dei timpani, il ritmo continuo dell’acustica e dello shaker riesce a trasmettere del bene e il momento strumentale con protagonisti gli archi e la chitarra fuzz, che prende lo scettro di tutto il brano, con facilità ma senza grossi sussulti rispetto al resto del disco.
La successiva “Big Ideas” segue le stesse identiche orme, destreggiandosi su un cantato colmo di riflessioni, immagini tra l’onirico e il teatrale sempre sul punto di doverti suggerire un codice segreto o qualcosa di risolutivo. Fatto sta che, anche in questo caso, la canzone prende il volo nel momento strumentale che segue il secondo ritornello. Ancora archi in sottofondo ed un tema che sembra di celesta che scuote di cima in fondo il brano, ci manda tra Morricone e Trovajoli, prima che l’ennesima chitarra wah chiuda il cerchio e ripassi il testimone alla voce col compito di finire il discorso. Un bellissimo momento strumentale.
“Hello You” è invece caratterizzata positivamente dall’apporto vocale e lirico, poggiandosi su un contributo ritmico che tiene in piedi in maniera interessante le strofe insieme ad una melodia che rende pieno merito al ritornello. Tra le canzoni intermedie (escludendo la parentesi incredibile di “Sculptures Of Anything Goes”) “Hello You” è sicuramente la più riuscita. Ben architettata ma non tiepida. La linfa in qualche maniera c’è ed emoziona.
Parte “Mr. Schwartz” e lo capisco al volo. Eccola, l’altra perla. Gli elementi parlano tra di loro e diventano un’unica cosa, includendo me in questo sottile equilibrio. La vittoria di una canzone è questa. Come quella salita degli archi contrapposta all’armonia che si complica solo un attimo, fino a rompere quel momento e tornare bruscamente nella strofa. Questa è magia pura. Inscatolata in una fine bossa dove tutto è permesso, compreso un testo che funziona senza particolari lampi espressivi. “Put your heavy metal to the test_There might be half a love song in it all for you”
Tocca alla piccola “Perfect Scene” chiudere le scene nella maniera migliore possibile. Il quadro sonoro è ancora ben costruito ed accogliente, compreso l’aspetto armonico della canzone che appare semplice e scorrevole, nonostante un paio di tocchi di classe nell’arrangiamento e nella scrittura che facciano sorridere di bontà. Ancora una volta però ci troviamo di fronte ad una cornice più bella del quadro, un equilibrio che non mi prende tra voce e il (lodevole) resto. Apprezzabile che la canzone si chiuda in maniera repentina a 2 minuti e 47 dopo il secondo ritornello ed evitando una scolastica coda pomposa da fine disco, dove a volte si cade nella tentazione di voler condensare tutto.
Alla fine credo che The Car sia un gran bel disco, musicalmente una delle cose migliori ascoltate durante quest’anno, ma non accompagnato però da un equilibrato contributo vocale ed espressivo, che appare perso tra le pieghe di un vestito troppo grande. Cosa che fa paradossalmente di questo disco uno dei più grossi dispiaceri musicali dell’anno.