“Oh you'll never see my shade or hear the sound of my feet While there's a moon over bourbon street”. ("Moon Over Bourbon Street")
“La rima è letteralmente una forma di “incanto”, un antico e occulto metodo per trasformare il caos dandogli sembianza di ordine”. (Sting)
Ascoltare The Bridge, l’ultima fatica di Sting con in testa questo capolavoro di canzone proveniente dal suo esordio solista, The Dream of the Blue Turtles, fa subito rimbalzare nella mente quanto appena letto nelle note del booklet del nuovo disco, riguardo al potere della rima.
L’amore, sentimento astratto e infinito, e la musica, proprio con le sue rime, possono fare da Ponte, da Bridge, appunto, dal nome del progetto, per convogliare questo caos in un nuovo ordine, dove si possa tornare a vivere serenamente.
Questo traspare nell’opera del “pungiglione”, che ha scritto i brani praticamente di getto, in un anno maledetto. Trentasei minuti e poco più, nell’edizione standard, per dieci tracce dai ritmi variegati, ma abbastanza simili come durata, nessuna lungaggine. Tutto ciò probabilmente a rappresentare il clima asettico e piatto che si sta vivendo, che si palesa anche nei suoni un poco algidi, con parecchi sintetizzatori e drum programming, altresì scaldati dalla sua voce, sempre fenomenale e in grado di emozionare anche senza gli acuti dei vecchi tempi, dal suo basso e a volte pure dal contrabbasso. Il fidato Dominic Miller, lo scafato produttore Martin Kierszenbaum e una manciata di ospiti virtuosi del proprio strumento contribuiscono a elevare il lavoro e a vederlo come una prosecuzione, seppur in contesti e modi completamente diversi, del periodo d’oro dell’autore britannico che, dopo aver dato tutto nei Police, ha intrapreso una carriera incandescente con un album azzeccato dietro l’altro fino a Mercury Falling (1996) incluso, per poi diradare le sue presenze, con Brand New Day (1999), nato per essere profondo, ma rivelatosi piuttosto effimero, l’enigmatico Sacred Love (2003), e invaghirsi successivamente di progetti sui generis da Songs from the Labyrinth a The Last Ship.
Così, esattamente dopo cinque anni dall’incostante ma più che decente 57th & 9th, non dimenticando la simpatica recente parentesi con Shaggy in 44/876 e la pleonastica, pur se arricchita da alcuni inediti, raccolta Duets, si respira invece aria nuova in una stanza antica con i primi due singoli, strategicamente posizionati all’inizio.
Acqua, amore e fantasmi del passato sono temi che si srotolano continuamente negli argomenti delle canzoni, come una moltitudine di fogli scaraventati da un’auto in corsa.
E le briose "Rushing Water", forse l’unico motivo reminiscente dell’era Police, e "If It’s Love", caratterizzata da una spolverata di ottoni e archi davvero geniali, ne sono impregnate, abbinando all’orecchiabilità pop, da classifica, pensieri profondi, sempre carichi di metafora. Così l’acqua che scorre e in cui l’artista cammina, vestito, nel retrocopertina di The Bridge, è simbolo di purezza, limpidezza e a essa dobbiamo attingere per pulirci e curarci, mentre niente è più divino del provare amore, sentimento contagioso e incurabile; percorrere i sentieri del cuore è il modo giusto per affrontare le asperità di questo delicato frangente.
E nuovamente, a proposito di amore, la parola "love" è presente addirittura nel titolo di altri due brani, dalla Shape of My Heart 2.0 del 2021 – a livello di atmosfere acustiche e musicalmente parlando –, intitolata For Her Love, alla deriva di questo affetto che sfocia in gelosia nell’incostante "Loving You", un pezzo creato insieme a Maya Jane Coles, con un groove che diventa trascinante in seguito ad alcuni ascolti, dopo essere sembrato inizialmente insipido e senz’anima.
Indubbiamente il buon Gordon Sumner, a settant’anni suonati è ancora geniale nel congegnare, architettare testi e conseguenti melodie, da solo o in “coabitazione” con Dominic Miller. Ne è esempio una delle tracce più belle inserite nell’opera, l’enigmatica "The Book of Numbers", dove, collegandosi alla bibbia ebraica, cita, stavolta implicitamente, per la seconda volta dopo "Russians", l’ideatore della bomba atomica Robert Oppenheimer, in un turbinio di colpi di scena contornati da un’impalcatura rock d’altri tempi, e confeziona una storia scevra da ogni possibile retorica o morale. Lo spettro del fisico statunitense racconta la propria verità davanti a un improbabile barista, ma la scena miracolosamente regge, un po’ come le peripezie del protagonista di "The Bells of St. Thomas", insolito ipnotico “pseudowalzer” in cui il suono delle campane (curiosamente provenienti dall’Italia, dalla sua residenza Il Palagio), un dipinto di Rubens non poco denso di vicissitudini, raffigurato pure all’interno dell’album, e un tradimento fugace danno linfa a un’avventura in bilico tra due mondi paralleli, sospesa fra spazi temporali differenti.
"Harmony Road" ha invece una trama musicale priva di nerbo, ravvivata dall’esuberante sassofono dell’amico di lunga data Branford Marsalis, un fulmine a ciel sereno che disegna colorate traiettorie jazz su una cantilena monocorde. Da sottolineare, comunque, l’originalità delle liriche, legate con sottile ironia al titolo, ispirato dal disco Harmony Row (1971) del suo mentore Jack Bruce.
La ruspante "The Hills on the Border" arriva inaspettata, come un sasso tirato a un vetro e appassiona per il suo incedere country, una vera e propria cavalcata che conduce al Flodden Field, nel Northumberland, sede di una delle battaglie più terribili nel 1513, dove pare morirono più di 60000 soldati, tra scozzesi e inglesi. Ora davvero, per tutto quanto accaduto, riprendendo un antico canto di quel momento storico, tramandato e diventato inno contro la guerra, “i fiori della foresta giacciono freddi nel fango”. Due fra i più rinomati artisti di musica celtica, proprio di tale zona, Peter Tickell e Julian Sutton, contribuiscono a evocare un’ambientazione atavica con il fiddle - il violino folk - e il melodeon - una piccola fisarmonica - e le parole di Sting si snodano su questi ritmi facendo improvvisamente materializzare di fronte all’incauto viaggiatore del racconto i fantasmi del passato e i peccati del presente.
L’utilizzo di immagini forti, allegorie e di una macchina del tempo che porta a scorrazzare in diverse epoche caratterizzano gran parte dell’opera in cui pop, rock swing, jazz e folk si intrecciano offrendo un quadro policromatico, ricco di risvolti e sfaccettature. Ed è interessante scoprire come la prima ispirazione, che ha fatto muovere le acque, sia partita con "Captain Bateman", riscrittura di un traditional presente nella Collection of English Folk Songs di Cecil Sharp, archivista e musicista grazie al quale si deve la riscoperta, all’inizio del ventesimo secolo, della canzone popolare in Inghilterra. Si tratta di una composizione davvero ben strutturata in cui convivono tutte le anime di Sting, instancabile al piano, chitarre, sintetizzatori e all’amato basso senza tasti: la bellicosa batteria di quella forza della natura chiamata Manu Katché, il violino di Tickell e i meravigliosi cori di Jo Lawry e Laila Biali aggiungono, oltre agli altri sessionmen presenti, un’insolita e graziosa energia a questo affresco di vita, che ruota sul mancato rispetto della promessa precedentemente fatta.
Di diversa concezione, ma dallo spessore altrettanto notevole, invece, il tenero finale a due chitarre acustiche, "The Bridge", commovente title track, anch’essa nata come elaborazione di un classico, "Waters of Tyne", che il songwriter britannico cantava sin da bambino.
“And now the fields are all but drowned, and we climb up to the ridge, some will seek the higher ground, some of us the bridge”.
Come suonano bene questi versi, sapientemente contornati dai delicati fraseggi prodotti dalle sei corde! La nostra avventura nel mondo di Sting si chiude da dove avevamo cominciato, con la misteriosa e potente magia delle rime. Un nuovo incanto si è creato, un ponte sonoro è stato costruito per non far sentire più sole le persone: ognuno può riconoscere la propria storia dentro a queste canzoni e trovare un significato universale che lo abbraccia e lo incoraggia a vivere.