Gran colpo quello messo a segno da Hardstaff Booking e Arci Bellezza, che hanno fatto convergere nel nostro paese i tour di due artisti importantissimi in ambito di sonorità estreme: Uniform e The Body, per l’occasione accompagnati dall’artista di base a Berlino Dis Fig.
La data del giorno prima a Torino è stata purtroppo annullata per allerta meteo, ma per quella a Milano il pubblico è abbastanza numeroso, pronto a godersi quella che si preannuncia come una serata imperdibile.
In apertura ci sono i britannici Bad Breeding, che sono in giro con gli Uniform per portare in giro il loro ultimo lavoro Contempt. Il quartetto appartiene di fatto alla scena Hardcore, ma le ritmiche serrate e i numerosi cambi di tempo che arricchiscono i loro brani sembrano avere più a che fare col Death Metal di scuola americana (gli assoli velocissimi di Idris Mirza ricordano parecchio quelli con cui Trey Azagtoth infarciva i primi dischi dei Morbid Angel). Il loro show è un’autentica deflagrazione sonora, praticamente senza pause, con il caos primigenio delle composizioni che si sposa con una certa precisione tecnico-esecutiva. Ottima la prova del cantante Christopher Dodd, decisamente Hardcore nel timbro e nell’attitudine, nonché frontman dalle indiscusse doti performative. Forse si potrebbe obiettare che le canzoni, per quanto ben scritte, risultino un po’ troppo derivative, ma in attesa del piatto forte, il set del quartetto di Stevenage è stato davvero gradito.
American Standard, quinto capitolo della carriera degli Uniform, entrerà di diritto nella mia classifica di fine anno e sospetto non solo nella mia. Il quartetto di Brooklyn ha saputo condensare la dimensione privata e politica dell’esistenza, in un album angosciante e serrato, dove la furia sonora che lo caratterizza diviene veicolo privilegiato per raccontare, tra le altre cose, le vicende del cantante Michael Berdan, alle prese con dipendenza da alcol e disturbi alimentari.
A vederlo sul palco, il vocalist appare totalmente a suo agio ed anzi, è lui il vero e proprio catalizzatore di una performance furibonda ma allo stesso tempo inquadrata in una fredda dimensione marziale. La chitarra di Ben Greensberg è l’altro elemento decisivo nel sound del gruppo, ispirato ad un feroce minimalismo, con lo stesso riff ripetuto all’infinito, così da accrescere il tormento esistenziale che queste canzoni comunicano. Massacrante la sezione ritmica, con Michael Blume e Brad Truax a pestare come dannati, mentre Berdan si agita come un ossesso sul palco e lancia le sue urla laceranti (purtroppo, immagino per scelta tecnica, la sua voce risulta fin troppo assorbita dal mix generale e nei momenti più Noise si fa quasi del tutto inudibile).
L’apice di questa performance mostruosa è ovviamente raggiunto dai venti minuti di American Standard, che inizia con Berdan prodursi da solo un uno scream tiratissimo, col volto illuminato da una luce portatile che ha reso ancora più inquietante il mantra “A part of me, but it can’t be me”, che aiuta a definire il mood del brano. Quando entra la band ci si muove tra martellamenti Industriali, echi di Noise, improvvise accelerazioni di matrice Sludge, il tutto caratterizzato dall’incessante ripetizione dei medesimi pattern, come una verità inesorabile che non si vorrebbe ascoltare ma da cui pure è impossible staccarsi. Show perfetto, non fosse stato per il volume eccessivamente basso della voce.
Quella con Felicia Chen, in arte Dis Fig, non è che l’ennesima collaborazione di un gruppo da sempre abituato ad avvalersi del contributo di vari artisti per spostare in molteplici direzioni le proprie coordinate stilistiche (basti ricordare, a titolo di esempio, lo splendido Leaving None but Small Birds di qualche anno fa, realizzato assieme ai Big/Brave).
Orchards of a Futile Heaven, con Chien al microfono, non fa che portare alle estreme conseguenze una proposta di per sé già parecchio ostica. Chip King e Lee Buford hanno recentemente dichiarato che la musica elettronica riesce ad essere molto più violenta di quella meramente chitarristica, e a guardarli in azione sul palco si direbbe che hanno ragione. La batteria di Buford è l’unico strumento “tradizionale” presente, per il resto ci sono solo pedaliere e aggeggi vari per filtrare e manipolare il suono. Un suono che arriva da una sorgente misteriosa e viene “trattato” in corso d’opera, tramutandosi in un muro spesso e scurissimo. Dis Fig, dal canto suo, è una performer eccezionale, disinvolta nel passare dalle parti più urlate a quelle maggiormente melodiche e cantate, cerca spesso il contatto col pubblico (ad un certo punto scende anche in platea), mentre le sue movenze ora ipnotiche, ora esagitate fanno da contorno al martellamento incessante degli altri due.
Non è l’assalto frontale del set precedente, ma la rarefazione elettronica e la scomposizione delle strutture operata dai nostri è se possibile ancora più violenta e disturbante. I brani del disco vengono proposti uno dietro l’altro, sempre preceduti da una breve introduzione di feedback a preparare la tensione. Tra sample, distorsioni improvvise e i pazzeschi inserti growl di Chip King a far da contraltare alla rabbia scura di Chen, l’ora scarsa del set dei Body assomiglia molto da vicino ad una discesa agli inferi.
Serata strepitosa, già di diritto tra le migliori dell’anno in ottica di musica live. Come sempre, un ringraziamento a chi ce li ha portati, nella speranza che sia possibile replicare al prossimo giro.