Qual è esattamente la relazione fra tecnica, intesa come sapienza artigianale, ed arte? La risposta, grossolana ma veritiera, è che, nella maggior parte dei casi, l’arte promana necessariamente da una tecnica ben tradita e solida, mentre quest’ultima, la sapienza artigiana, può ben stare in piedi da sola. Tale regola, quasi aurea, ammette due eccezioni: a) l’arte senza tecnica; b) la tecnica fine a se stessa.
Il disco di Les Claypool, che, ad eccezione di Bootsy Collins, riunisce, anche nel nome d’ensemble, l’incredibile formazione di Transmutation (Buckethead, chitarra, Bernie Worrell, tastiere, Bryan Brain Mantia), ricade nel secondo caso. Si intenda: è un bel disco, ça vant sans dire, suonato meravigliosamente, capriccioso e sghembo come il carattere del bassista ideatore, ma, a volte, si ha l’impressione di applaudire delle foche che fanno girare palloni sul naso. Si potrebbe obiettare che anche tali piroette siano arte (delle foche o del domatore); forse è così. Federico Zeri faceva rientrare nell’arte anche la panificazione, i francobolli e le copertine degli album.
Claypool, peraltro, non cade mai nella stucchevolezza di certi eroi dello strumento (il numero è legione); egli sovraintende alle varie vignette con l’aria dell’imbonitore beffardo che esalta le proprie donne barbute: tale stralunata bizzarria, lontana da qualsiasi organicità o fine, si derubrica in goliardia (a cominciare dal nome macedonia del gruppo) e in un vaudeville mai davvero tagliente.
Accontentiamoci (non è poco tuttavia) dei mirabili squarci tecnici ed improvvisativi.