Vengono da Auckland, Nuova Zelanda, e si muovono in un'epoca in cui suonare Jangle Pop con tante chitarre potrebbe sembrare un'occupazione persa in partenza, ma i risultati che questi quattro non ancora trentenni stanno ottenendo parrebbe dire il contrario: “Future Me Hates Me”, il loro disco di debutto uscito quest'estate, ha raccolto le lodi della stampa specializzata (il sottoscritto ne aveva parlato qui) concentrando attorno a sé un hype tutto sommato notevole, che ha procurato al gruppo due tour europei nell'arco di pochi mesi ed una prestigiosa apertura ai Death Cab For Cutie, a partire dal gennaio del prossimo anno.
In entrambi i casi l'Italia non c'è per cui non resta altro da fare che sfruttare le coincidenze favorevoli e volare a Bruxelles, ultima tappa di questo loro breve ma intenso giro che, partito da Praga, ha toccato Polonia, Germania, Francia, Inghilterra, per concludersi questa sera in Belgio.
Arrivo fuori dal Le Chaff poco prima delle 20, allettato dall'orario pubblicato su Facebook e dalla ingenua speranza che, trovandomi nel nord dell'Europa, i concerti potessero iniziare ad un orario più decente che da noi.
In effetti è così, anche se la prima cosa che vedo sono loro quattro intenti a scaricare strumenti ed attrezzatura dal van targato Repubblica Ceca che hanno evidentemente noleggiato dopo la prima data. Un rapido saluto e mi annunciano che inizieranno alle 21.30. Non è l'orario previsto ma non è neanche male, considerato come siamo abituati noi.
Le Chaff è poco più di un bar, piccolo e stretto, col palco inesistente e il gruppo che suona in fondo alla sala principale, che comunque è lunga qualche metro, non di più.
Il risultato è che ci saranno sì e no 30 persone, forse 40, ma sono tutte ammassate e gli unici che riescono a vedere qualcosa sono quelli delle prime file (tra cui per fortuna ci sono anch’io) e quelli sistemati nella sala accanto, dalla quale si riesce ad avere una faticosa vista laterale sui musicisti.
Date le circostanze, mi aspettavo un live disastroso, con suoni che neanche il peggiore gruppo di ragazzini alle prime armi (del resto anche l'impianto audio, con due casse striminzite, non faceva presagire nulla di buono).
Non è andata così. I quattro hanno alle spalle studi Jazz di una certa consistenza, suonano insieme ormai da parecchio tempo (hanno un nuovo batterista ma per il resto sono sempre loro) ed in definitiva l'impianto non era poi così male.
Il risultato è uno show intenso e divertente, nonostante la sua brevità. Elizabeth Stokes ha tutto tranne che il look e il portamento della musicista rock, si presenta con una felpa con gli orsetti ed una pettinatura da brava ragazza della porta accanto. Stessa cosa per il suo compare Jonathon Pearce, che coi suoi occhiali e capello da nerd, sembra uscito da una sit com anni ‘80.
Quando attaccano a suonare però, cambia tutto. È “Whatever”, il loro primo singolo, contenuto anche nell'ep “Warm Blood”, a dar via alle danze. La resa sonora è pulita e potente, contro ogni previsione, loro ci danno dentro alla grande ed hanno un gran tiro, oltre che una notevole precisione soprattutto nei cori, semplici ma ricchi di armonie, con tre quarti dei membri spesso impegnati dietro il microfono.
Tra una canzone e l'altra scherzano col pubblico, ironizzando sul fatto che quasi nessuno dei presenti veda qualcosa, ma dicendo che tutto sommato non è un grande spettacolo (“Ci muoviamo così tutto il tempo - fa notare Elizabeth mimando il gesto di suonare la chitarra - dopo un po’ diventa piuttosto noioso”). Dal canto loro, gli intervenuti dimostrano di gradire parecchio ed anche se non si capisce in quanti effettivamente conoscano i pezzi, l'atmosfera risulta calda al punto giusto.
I brani del disco ci sono più o meno tutti (manca all'appello la sola “River Run Lvl 1”) da “Uptown Girl” a “Happy Unhappy”, passando per la fragorosa Title Track, le melodie zuccherose di “You Wouldn't Like Me” e le strutture un po’ più ricercate di “Less Than Thou”. Spazio anche per un paio di brani dell'ep d'esordio, con “Lying in the Sun” e “Idea/Intent”, quella che forse più faceva intravedere le potenzialità che avrebbero poi espresso in seguito.
“Abbiamo ancora un paio di canzoni e poi una di emergenza”, dice Elizabeth con quella giovialità che la contraddistingue ed è scontato che a salutare il pubblico sia proprio “Great No One”, col suo attacco al fulmicotone, esempio perfetto di un gruppo con una facilità ed un potenziale di scrittura assolutamente disarmanti.
La “canzone d'emergenza” è scontata, il pubblico lo sa e la chiama a gran voce. “Tranquilli, tanto non andiamo da nessuna parte” scherza la cantante. Ed a ruota eseguono “Little Death”, brano di spicco che ancora mancava alla scaletta di “Future Me Hates Me”. È durato tutto poco meno di un’ora ma difficilmente saremmo potuti resistere di più, in una sistemazione del genere.
Al termine, è la stessa Stokes a recarsi al banchetto del merchandising per vendere magliette e cd e fare due chiacchiere col pubblico, in pieno stile Do It Yourself.
Valeva la pena vederli in azione, i The Beths. Sanno scrivere canzoni, sanno suonare e hanno tutte le carte in regola per poter divenire un punto di riferimento in una scena, quella Indie Pop, affollatissima ma in questi ultimi anni fin troppo frammentata. Speriamo vada loro tutto bene; anche perché, per poterli vedere finalmente dalle nostre parti, occorrerà che prima crescano un po’ di più.
[Foto di Stefano Saponaro]