Quante vite hanno vissuto gli Swans? Dagli esordi rumorosi e ostentatamente avanguardistici di Filth e Children of God, passando per la transizione acustica di Love of Life, fino alla rinascita degli anni Dieci, coi capolavori in formato gigante di The Seer, To Be Kind e The Glowing Man; infine, con l’ultimo Leaving Meaning che avrebbe dovuto costituire il primo capitolo di una nuova incarnazione, purtroppo prematuramente spazzata via dal Covid.
Le premesse di The Beggar vanno dunque rintracciate qui: con il tour del disco precedente rimandato per l’ennesima volta, Michael Gira si è deciso a dar vita ai nuovi brani che aveva nel frattempo composto durante il periodo di isolamento, durante il quale ha trovato pure il tempo per far nascere un figlio.
Is There Really a Mind?, il solito disco contenente primitive versioni dei nuovi pezzi, scritti e suonati alla chitarra acustica, è stato venduto come di consuetudine tramite il sito del gruppo, anche per racimolare un po’ di soldi da usare per le registrazioni. Dopodiché Gira e i musicisti da lui scelti si sono ritrovati a Berlino, nello studio di Ingo Krauss, a due passi dall’ex aeroporto di Templehof, luogo pregno di memorie storiche, soprattutto del periodo nazista e che è stato per l’artista americano un’ulteriore fonte di ispirazione.
Qui la nuova formazione degli Swans ha preso vita: nuova per modo di dire, perché se a quello che è a tutti gli effetti il solo e unico titolare del marchio piace spesso scombinare le carte e offrire declinazioni diverse della vita della sua creatura, alla fin fine anche a questo giro abbiamo l’apporto di collaboratori storici come Kristof Hahn (con lui dal 2010, quindi principale membro della fase “ascetico-spirituale”), Larry Mullins (oggi più noto per essere il batterista dei Bad Seeds, ma che ha suonato con gli Swans nei dischi di fine anni ’90), Christopher Pravdica (c’è stato ininterrottamente dal 2010 al 2017) e Phil Puleo (anche lui si è fatto più o meno tutti gli album post The Great Annihilator). Assieme a loro, oltre al contributo alle backing vocals della moglie Jennifer, di Lucy Kruger e Laura Carbone, anche il grande talento di Ben Frost, probabilmente il vero e proprio valore aggiunto di questo disco.
The Beggar è un disco intriso di spiritualità, guarda da vicino le grandi questioni della vita e della morte che sono da tempo al centro della riflessione di Michael Gira. Da questo punto di vista, queste parole di una recente intervista a Francesco Vignani e pubblicata sull’ultimo numero di Rumore, risultano particolarmente utili per capire che cosa dobbiamo aspettarci dall’ascolto: “La morte è seduta sulle spalle di tutti, ci sussurra all’orecchio sin dal momento in cui nasciamo. Senza di lei la vita non avrebbe significato, in un certo senso è qualcosa di cui dovremmo essere grati. Personalmente però non è che mi sembri di essere diventato molto più saggio. Sono stupefatto come sempre dal semplice fatto della mia esistenza e cerco di tenere gli occhi spalancanti nella speranza di riuscire a dare un’occhiata al volto di Dio nel caso dovesse materializzarsi nell’atmosfera”.
Ma The Beggar nasce anche dal ricordo di Los Angeles, città nella quale Gira è nato, nella quale ha vissuto l’adolescenza e che ha abbandonato per New York all’età di 25 anni. Los Angeles, ha dichiarato nel corso della stessa intervista, è “la radice da cui fiorisce tutto ciò che è meraviglioso e orrendo nella cultura americana”. Eppure, ancora oggi si scopre in qualche modo a rimpiangerla, dice che se potesse si comprerebbe una casa in riva al mare e starebbe lì tutto il tempo “fatto e abbronzato, esattamente come quando ero ragazzo”. Non è dunque strano che siano state queste visioni di orrore, morte e beatitudine alterata dalle droghe (Gira ha richiamato anche un ricordo di quando aveva 13 anni, quando fatto di LSD ha guardato dei motociclisti massacrare di botte un ragazzo che aveva toccato una delle loro moto) a dare forma alla title track, che nei suoi dieci minuti oscilla proprio tra queste due dimensioni, soprattutto nella parte finale, dove compaiono quei lampi di trascendenza che caratterizzavano anche monumentali composizioni del passato recente come le gemelle Cloud of Unknowing e Cloud of Forgetting.
Dura due ore, The Beggar, e se di primo acchito saremmo tutti portati a pensare che è troppo, quando lo si mette su c’è il forte rischio di trovarvisi invischiati al punto di non riuscire più ad uscire. C’entra, senza dubbio, il fatto che nonostante il solito formato extra large, questa volta le canzoni risultino più “accessibili” (il virgolettato è d’obbligo) con uno spazio decisamente maggiore del solito lasciato al cantato ed una struttura interna che meno concede alla reiterazione ossessiva, per puntare maggiormente sui nuclei melodici e su un’evoluzione che a tratti si potrebbe anche definire dinamica. Prova ne siano, forse, le iniziali “The Parasite” e “Paradise is Mine”, che pur facendo 18 minuti in due appaiono versione più agile degli Swans periodo The Seer. Oppure “Los Angeles: City of Death”, che dura come un brano normale e contiene sorprendenti spunti rock. Ma anche “Ebbing”, che fonde la litania celeste in chiave acustica all’orgia rumoristica, con tanto di ultima parte corale e ossessiva. Così come le cupe visioni di “Why Can’t I Have What I Want Any Time That I Want”, con una band che suona potente e focalizzata, come se avesse fretta di andare dritta al punto.
Tutto questo, e poi arriva “The Beggar Lover (Three)” che dura 44 minuti e che per il 90% delle band oggi in circolazione farebbe disco a sé. Si tratta di una traccia che, nonostante la dimensione molto più che gigantesca, risulta decisamente affascinante, sorta di compendio di tutto ciò che gli Swans hanno prodotto a partire dal 2010, senza un vero centro e senza un ordine di svolgimento, un flusso di coscienza realizzato mediante cut up di tutta una serie di registrazioni precedenti, dove le parti più incisive sono senza dubbio quelle in cui il gruppo si lancia in quelle cavalcate lunghe ed ipnotiche che sono diventate ormai uno dei loro principali fattori identitari.
Alla fine giudicare un disco del genere non è semplicissimo: nella sovrabbondanza di note e suggestioni che per forza di cose l’ascolto di due ore filate di musica di questo livello si porta dietro, l’impressione è che alla fine nessuno cambierà idea: chi ama da sempre la band di Michael Gira riconoscerà un’ennesima conferma del suo talento; tutti gli altri continueranno a trovarla insopportabilmente prolissa ed autoreferenziale.
Chi mi conosce sa perfettamente che io sto coi primi: probabilmente a questo giro non c’era bisogno di fare un doppio cd (per quanto bella sia, “The Beggar Lover” non sposta gli equilibri e avrebbe senza problemi potuto essere pubblicata il prossimo anno) ma che gli Swans siano immensi è stato ancora una volta ribadito a gran voce.