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REVIEWSLE RECENSIONI
The Bad Fire
Mogwai
2025  (Rock Action )
IL DISCO DELLA SETTIMANA POST-PUNK/NEW WAVE ALTERNATIVE ROCK
8/10
all REVIEWS
27/01/2025
Mogwai
The Bad Fire
Un ottimo ritorno quello dei Mogwai con The Bad Fire, forse meno tirato e violento del solito, ma i pregevoli crescendo e i giochi di dinamiche che li hanno resi proverbiali non mancano di certo. Provateci voi, dopo trent’anni di attività, a essere ancora così in forma.

L’ultimo disco dei Mogwai, As the Love Continues, uscito in piena pandemia, era finito al primo posto in classifica in Inghilterra, rinverdendo uno stantio dibattito sulle sorti della musica indipendente e su quanto, in fin dei conti, gli ascoltatori odierni potessero essere ancora in grado di essere salvati. Tutta roba inutile, ovviamente, ma ci è servita per cullarci in uno strano sogno di prevalenza culturale, durato giusto lo spazio di un quarto d’ora e di qualche post su Facebook, prima che la realtà prendesse nuovamente il sopravvento.

Ai Mogwai, di sicuro, non è importato granché: loro viaggiano su binari altri praticamente da sempre, si sono conquistati una credibilità artistica e un seguito di fan sempre più consistente nel corso del tempo, così che è suonato in qualche modo inevitabile il fatto che prima o poi siano passati in cassa a raccogliere qualcosa (per inciso, neppure con il loro lavoro più ispirato, sebbene fosse ugualmente un disco validissimo).

The Bad Fire arriva tre anni e una colonna sonora dopo (vera e propria attività parallela del gruppo, ormai non le contiamo più) al termine di quello che non è certo stato un bel periodo: il titolo viene da un’espressione in slang scozzese che significa “Inferno”, più o meno come quello che la band di Stuart Braithwaite pare aver attraversato negli ultimi tempi, tra lutti e malattie varie (in particolare quella che ha colpito la figlia del tastierista Barry Burns).

La musica, come spesso funziona in questi casi, è stata un po’ una terapia, un po’ un rifugio: “Spesso sentiamo dire dalla gente che la nostra musica li ha aiutati a superare momenti difficili della loro vita e per una volta credo che valga anche per noi”.

 

Prodotto da John Congleton (St. Vincent, Angel Olsen, John Grant), l’undicesimo lavoro della band scozzese è un ulteriore tassello di una discografia variegata e senza troppe concessioni alla reiterazione della formula (nella scena Post Rock, di cui sono ormai gli indiscussi capofila, è davvero arduo trovare un gruppo più vario e cangiante di loro), sebbene non sia esente di una certa dose di manierismo in alcuni punti.

Il lavoro di Congleton ha senza dubbio contribuito ad una maggiore insistenza sui Synth e sulla generale componente elettronica, tanto che in diversi punti (in particolar modo sui quasi sette minuti dell’iniziale “God Gets You Back”) si avvertono richiami a un lavoro come Rave Tapes.

Si tratta nel complesso di un disco meno tirato e violento del solito, anche se non mancano i pregevoli crescendo e i giochi di dinamiche che li hanno resi proverbiali (“Hi Chaos”, “Hammer Room” e “If You Find This World Bad, You Should See Some of the Others” le cose migliori in questo senso); non abbiamo dubbi che dal vivo sapranno valorizzare meglio certe ritmiche incalzanti e certe sfuriate dal sapore drammatico che qui risultano solo accennate.

 

Quindi, in poche parole, sono sempre i Mogwai, anche se rispetto al disco precedente hanno puntato di più sull’atmosfera e sulla riflessione, come attestato soprattutto da “What Kind of Mix is This?” o “Pale Vegan Hip”.

Non mancano poi i consueti episodi cantati, quelli più in linea con la forma canzone e che dimostrano che anche in questo ambito gli scozzesi posseggono un talento fuori dal comune: “Fanzine Made of Flesh” è puro Shoegaze, con la solita cura sopraffina delle melodie, che sfociano nella carica drammatica del ritornello; “18 Volcanoes”, col suo andamento ipnotico, guarda più al Dream Pop, ed è un altro tassello di bellezza e delicatezze sopraffine.

E se il singolo “Lion Rumpus”, breve e aggressiva (questa sì) risulta poco più che uno standard, la conclusiva “Fact Boy”, elegante e sinuosa, impreziosita dal violino e coi fraseggi di un pianoforte elettrico sullo sfondo, è certamente una delle cose più belle che abbiano scritto negli ultimi anni.

Un ottimo ritorno, in definiva: provateci voi, dopo trent’anni di attività, a essere ancora così in forma.