L’ultimo disco dei Mogwai, As the Love Continues, uscito in piena pandemia, era finito al primo posto in classifica in Inghilterra, rinverdendo uno stantio dibattito sulle sorti della musica indipendente e su quanto, in fin dei conti, gli ascoltatori odierni potessero essere ancora in grado di essere salvati. Tutta roba inutile, ovviamente, ma ci è servita per cullarci in uno strano sogno di prevalenza culturale, durato giusto lo spazio di un quarto d’ora e di qualche post su Facebook, prima che la realtà prendesse nuovamente il sopravvento.
Ai Mogwai, di sicuro, non è importato granché: loro viaggiano su binari altri praticamente da sempre, si sono conquistati una credibilità artistica e un seguito di fan sempre più consistente nel corso del tempo, così che è suonato in qualche modo inevitabile il fatto che prima o poi siano passati in cassa a raccogliere qualcosa (per inciso, neppure con il loro lavoro più ispirato, sebbene fosse ugualmente un disco validissimo).
The Bad Fire arriva tre anni e una colonna sonora dopo (vera e propria attività parallela del gruppo, ormai non le contiamo più) al termine di quello che non è certo stato un bel periodo: il titolo viene da un’espressione in slang scozzese che significa “Inferno”, più o meno come quello che la band di Stuart Braithwaite pare aver attraversato negli ultimi tempi, tra lutti e malattie varie (in particolare quella che ha colpito la figlia del tastierista Barry Burns).
La musica, come spesso funziona in questi casi, è stata un po’ una terapia, un po’ un rifugio: “Spesso sentiamo dire dalla gente che la nostra musica li ha aiutati a superare momenti difficili della loro vita e per una volta credo che valga anche per noi”.
Prodotto da John Congleton (St. Vincent, Angel Olsen, John Grant), l’undicesimo lavoro della band scozzese è un ulteriore tassello di una discografia variegata e senza troppe concessioni alla reiterazione della formula (nella scena Post Rock, di cui sono ormai gli indiscussi capofila, è davvero arduo trovare un gruppo più vario e cangiante di loro), sebbene non sia esente di una certa dose di manierismo in alcuni punti.
Il lavoro di Congleton ha senza dubbio contribuito ad una maggiore insistenza sui Synth e sulla generale componente elettronica, tanto che in diversi punti (in particolar modo sui quasi sette minuti dell’iniziale “God Gets You Back”) si avvertono richiami a un lavoro come Rave Tapes.
Si tratta nel complesso di un disco meno tirato e violento del solito, anche se non mancano i pregevoli crescendo e i giochi di dinamiche che li hanno resi proverbiali (“Hi Chaos”, “Hammer Room” e “If You Find This World Bad, You Should See Some of the Others” le cose migliori in questo senso); non abbiamo dubbi che dal vivo sapranno valorizzare meglio certe ritmiche incalzanti e certe sfuriate dal sapore drammatico che qui risultano solo accennate.
Quindi, in poche parole, sono sempre i Mogwai, anche se rispetto al disco precedente hanno puntato di più sull’atmosfera e sulla riflessione, come attestato soprattutto da “What Kind of Mix is This?” o “Pale Vegan Hip”.
Non mancano poi i consueti episodi cantati, quelli più in linea con la forma canzone e che dimostrano che anche in questo ambito gli scozzesi posseggono un talento fuori dal comune: “Fanzine Made of Flesh” è puro Shoegaze, con la solita cura sopraffina delle melodie, che sfociano nella carica drammatica del ritornello; “18 Volcanoes”, col suo andamento ipnotico, guarda più al Dream Pop, ed è un altro tassello di bellezza e delicatezze sopraffine.
E se il singolo “Lion Rumpus”, breve e aggressiva (questa sì) risulta poco più che uno standard, la conclusiva “Fact Boy”, elegante e sinuosa, impreziosita dal violino e coi fraseggi di un pianoforte elettrico sullo sfondo, è certamente una delle cose più belle che abbiano scritto negli ultimi anni.
Un ottimo ritorno, in definiva: provateci voi, dopo trent’anni di attività, a essere ancora così in forma.