Certo che quando sai che Sufjan Stevens ti lascia tutto questo tempo di sé, pensi anche al fatto che il tempo te ne stia chiedendo lui per primo e già questo è un punto. Evidentemente non gli basta stupire con i mezzi a disposizione di tutti e, proprio perché di tutti, diventati alla stregua dell’obsoleto. Piuttosto sfrutta delle frecce diverse, banalmente a disposizione di tutti anche quelle, ma ben più difficili da mirare e centrare.
Riempire tre, quattro minuti coadiuvati dal video ben diretto, dalla fotografia che spacchi, dalle sponsorizzate sui social, dalle frasi giuste e brevi, che il troppo non arriva, dai promo teaser che non superino i 30 secondi, così ci insegnano, dalle regole che vorrebbero puzzare di rock’n’roll ma che sono semplicemente delle abitudini in un’epoca rapida dove si mette in chiaro che non ruberemo il vostro tempo in cambio della vostra attenzione, grazie, di un click per un messaggio che rispetterà le regole di non invasione.
Facciamo che a qualcuno invece venga il ribrezzo a dover far parte di un carrozzone infinito ed allora ti nascondo un ago in un pagliaio, perché voglio farti capire che in quel pagliaio ti ci potrai sdraiare e che l’ago, stai sereno, non ce l’ho messo. Non suona già diverso?
Specialmente se mi è bastato di leggere il numero 80 minuti per capire, ipotizzare, fantasticare, inventarmi un’alternativa o una speranza. Che poi chissà se ci sarà.
Ecco che entra in ballo la classe, il messaggio e la ricerca di un qualcosa nel destinatario. Vediamo cosa trova in me.
Il genietto del Michigan ci ha abituati, almeno per chi lo segue, a tutto e il contrario di tutto; pacatezza, folk, jazz, colonne sonore a distanza di migliaia di chilometri, progetti utopistici di album dedicati ai 50 stati americani, collaborazioni, testi malinconici e profondi. Alla fine non ha mai mollato la presa della qualità, sia chiaro. Certo è che ha fatto cose più coinvolgenti di altre, vista la sincerità della matrice, elemento di garanzia di purezza e di provenienza.
Stavolta pare ci sia molta elettronica. Così è, così ho sentito dire.
L’intro di Make me an offer I cannot refuse stende il tappeto e ci dà il benvenuto insieme ad una melodia vocale rielaborata quanto serve per farci entrare nel mood del presente filtrati in una timbrica tipicamente Buckley FIGLIO, come è già capitato che mi ricordasse.
Il piano sonoro è mastodontico e ciò che colpisce ad un ascolto attento sono i vari strati del lavoro sul suono e sull’arrangiamento. Volumi di strumenti ed elementi che dialogano tra di loro ma evidentemente su due piani differenti di decibel. Pare quasi in un paio di momenti che stiano scorrendo due, tre canzoni diverse contemporaneamente, ma perfettamente incastrata. Uno schiaffo che non mi aspettavo.
Non sono incollato all’ascolto da lui, dalla voce, dalle melodie, ma dal sound, devo ammetterlo. Dopotutto l’arrangiamento, la scelta dei suoni, fa parte del biglietto. La coda che chiude la opening track è alta scuola.
Run away with me, eterea quanto basta, inzuppata in synth sci-fi che deliziano il palato, scorre con la piacevolezza stavolta anche di una melodia vincente, di una pasta vocale meglio inserita in questo contesto sospeso da terra, piuttosto che dal precedente mood più deciso. È evidentemente a casa sua e negli ultimi venti anni ce lo aveva abbondantemente dimostrato.
Video Game, dal sapore reso fresco dai suoni tastieristici e dal timbro vocale velato, alleggerisce l’ascolto, grazie ancora al felice connubio tra un sound impeccabile ed una melodia vocale che non lascia scampo. Siamo in pieni anni ottanta, evoluti. E la scelta batteristica semplice e monotematica aiuta a non indirizzare il tutto in un percorso pericoloso e ricco di sfaccettature. Piuttosto rimangono delle finestre aperte.
Appoggiato al davanzale di questa finestra ascolto la successiva Lamentations, concentrandomi sulle parole che spiccano in mezzo ai suoni, no future. E ripenso a quell’ I don’t wanna be your personal jesus della canzone precedente emerso e riandato subito sotto il livello dell’acqua per lasciarmi in quell’atmosfera senza disturbare. Tell me you love me prosegue il discorso, dandomi ancora la certezza dell’importanza dell’aspetto sonoro durante tutta la durata del brano grazie ad una scrittura ritmico percussiva davvero degna di nota.
Die Happy è risolutiva, sospesa in un coro di reverberi e ripetizioni che non fanno altro che plasmarti all’interno del mood di un messaggio semplice, elementare come I wanna die happy, ripetuto talmente tante volte da diventare campionato, da perdere la propria origine e diventare alienante, grazie all’aiuto di piccole campane stonate che risuonano e impregnano l’aria di incertezza.
“I feel just like an embryo_I take it out before you put it back
Put my head behind my knees_I search myself for all desease
I separate the bottle from the cap”
La composizione di Ativan è quella che mi riporta con la testa alla sorpresa data dalla opening track, me la fa quasi mancare e capisco di essere rimasto colpito dall’apertura e forse meno dal continuo delle tracce. Ma chissà. Sono talmente profonde che ti stendono dalla bellezza e dalla totalità, dalla dedizione in cui ti trovi immerso. È una scrittura semplice questa ma mi funziona e mi fa funzionare.
Ed ancora una volta vengo meno colpito dalle melodie della voce in favore delle musiche. Tant’è che anche qua sulla coda e sul relativo arrangiamento corale viene fuori il colpo da maestro, quel fluido scivolare da una ritmica ostinata e vincente ad un arrangiamento struggente. Come se dai Radiohead appuntiti e controversi di The King of Limbs ci si ritrovasse catapultati negli archi di Morning Phase di Beck. Eccezionale.
Finisco il pensiero sulla coda di Ativan, mi ritrovo nel centro di questa Ursa Major e non potevo sperare in un posto migliore; un quadro sonoro ricco di pennellate minuscole ma laddove l’alta qualità sia comunque macroscopica. Questo è il secondo imperdibile particolare che ho trovato in quest’ascolto. Essere costretti all’attenzione verso i dettagli alla fine ha dato i suoi frutti e mi sono ritrovato in un brano che potrebbe essere in un’altra epoca il manifesto di un periodo, anziché uno dei quindici brani di un album.
Mi colpisce il gioco di contrappunti tra le frequenze basse, che definirei distrattamente un moog, e gli effetti in cui sono state scolpite le voci. Una roba che con delle sonorità più acustiche ed orchestrali potrebbe stare in piedi in un terreno d’incontro tra l’avanguardistico e il classico.
Curioso come la melodia della voce sfiori in un paio di punti quella di Special K dei Placebo.
Landside e Gilgamesh scorrono a braccetto come due perle gemelle e cugine, ignare della loro portanza nel punto centrale di questo ascolto. Ai miei orecchi sono a questo punto il picco dell’ascolto, nell’attenzione più che nel giudizio o nel trasporto emotivo, adesso che gli ingredienti mi sono chiari, che sono pronto a farmi sorprendere e drizzo le antenne in attesa di quel suono, quel momento che mi prenda per mano.
Succede all’inizio della successiva Death Star, cupo dettaglio vestito anni ottanta di The Ascension, curiosamente un formale e apparente legame con l’ultimo Bowie, che spicca per portare questo spaccato di frequenze un po’ indietro e ad immaginare come sarebbe stato perfetto in una pellicola di fine anni ottanta ambientata nel futuro. Il suono con cui comincia mi conquista, il livello di suono e di arrangiamento tiene in piedi l’attenzione fino al punto in cui tutto ad un tratto mi stufa e mi domando perché; non è evidentemente colpa sua, della qualità, ma di me ascoltatore e forse delle mie abitudini di ascolti con cui ho (ed abbiamo) preso le misure. Credo si tratti di resistenza, fisica o cerebrale che sia.
Quindi stacco per un po’, perché non se lo merita di essere giudicato frettolosamente. Se ha impiegato tanto a scriverlo, possiamo anche impiegare tanto ad ascoltarlo, giusto?
In realtà ad un fresco riascolto Death star mi risuona meravigliosamente; è di uno scuro che conforta, alleggerito da un tema di synth che spicca come una bandiera per un patriota, immagino, omaggia in un certo senso un altro David, stavolta Byrne, col suo modo di cantare dritto e lieve su una base decisa e spietata. L’intermezzo strumentale aperto ed evocativo che strizza l’occhio a Trainspotting, a Brian Eno, sarà che quel capolavoro di Deep Blue Day la sento ovunque come la voce di chi ci manca.
Tutto ciò sta a dire che alla fine di un lungo ascolto stuzzica i miei limiti ma come antipasto di un successivo tentativo solletica le più ampie ispirazioni. Mi sono preso le mie responsabilità.
Si scivola nella successiva Goodbye to all that senza potersene rendere conto dato che sono unite dal solito frammento tematico strumentale, dal solito groove e velocità.
Chiarito che ci troviamo di fronte ad un disco arrangiato e prodotto come poco capita di sentire, mi vorrei/dovrei soffermare sulla scrittura. Mentre fatico a trovare spunti lirici che mi diano il la, mi soffermo sulla bellissima linea vocale del ritornello, sui cori che ci portano in questo appoggiato climax e sull’arpeggio di basso sintetico che faceva parte anche di Death star, portandoci in una dimensione estesa di canzone nelle canzoni, di temi concettualmente ricorrenti e non posso non pensare al Beach Boysiano Smile (Wilsoniano, pardon) con quel tema di tack piano di Bicycle rider che gioca a sparire e riaffiorare nelle canzoni, anche se sarebbe più appropriato dire nelle sessioni, visto lo stato indefinito di quel capolavoro.
L’elettronica ineccepibile e minimale di Sugar sentenzia l’avvento di un nuovo frammento musicale ed a questo punto comincio in testa un brutto gioco temporale a ritroso per capire cosa potrà ancora succedere di sorprendente nel tempo che rimane al disco; non so a che punto sono, potrei vederlo, ma sinceramente sto bene qui, e non voglio proprio cambiare la mia posizione.
Aspetto che cominci il cantato ma il gioco armonico che spicca in questi 4 blocchi che girano su 3 accordi mi ammalia a dovere e sono ancora qui; mi sembra di essermi perso delle parole del testo, lo ricerco indietro e non lo trovo, diventa un’allucinazione su cui indagherò quando sarà finita. Uno strumentale, mi sono rassegnato.
Ecco che al terzo minuto parte il cantato servito in un piatto di delay e ripetizioni che lo insaporiscono a dovere e lo rendono all’altezza del lungo intro; la melodia mi pare davvero bella. Questo disco è una goduria, me ne sto convincendo.
Talvolta mi sembra che mi segua nell’ascolto, come se mi spiasse nelle intenzioni, nei pensieri o desideri di soluzioni. Ma questa è un’altra suggestione. Certo che comincio a pensarci, perché le pozioni chimiche esistono in musica, sono frequenze ed a saperle amalgamare magari si arriva a questi effetti psichedelici.
In questo senso, la sensazione di essere di fronte ad un grande disco, oltre che grosso, si fa pressante; si ha a che fare con un ascolto insolito, una roba che capita di rado, una cura negli arrangiamenti, nei timbri che giocano a spalleggiarsi, che sembra maniacale.
Finiti i quasi 8 minuti di Sugar ci addentriamo nella title track The Ascension. Il velo di voce che si stende su questi accordi la fa da padrone, quasi comprensivo del fatto di dover e poter prendersi il suo tempo.
Penso, incuriosito, a come avrà fatto a scrivere questa musica, da cosa sarà partito, e visto l’importante momento tastiera e voce che si snoda in tutta la prima parte di questa canzone, comincio a pensare che sarà un intro lungo e portante. Invece rispetta le 4 canoniche misure e stacca la voce.
Un requiem angelico, in cui una voce maschile, credibile, umana gioca con la dolcezza, con le ripetizioni date da se stessa in loop. Come un girotondo con se stesso. Un tappeto finale di voci, senza elementi percussivi sotto a sé, che crea un naturale pertugio verso la porta di uscita rappresentata da quell’ultima fessura sempre più in vista, l’ultimo brano dell’album.
America si avvicina e quel pertugio prende non tanto la forma di un naturale arrivederci, quanto di un benvenuto.
Ci troviamo nell’ultimo episodio all’interno di una bolla che si preannuncia importante, viste le premesse; 12 minuti.
Elettronica calibrata con la solita maestria, anche negli spunti più acidi e grigi. È come se si fermasse il tempo un attimo prima dell’arrivo di un temporale, magari in una casa ai piedi di un bosco e se ne osservi in quel fermo immagine tutti quegli aspetti meravigliosi con la differenza che stavolta sai che non ti potranno fare la minima paura; è la vittoria della serenità all’interno di un incombente scuotimento, della candida foschia, banalmente, sul grigio torbido. Ed alla fine della bellezza sull’incertezza del finale di un lungo viaggio di 80 minuti.
America si sviluppa come una ballad elettronica che acquista col passare dei minuti la forza del canto popolare. La fine del coro ci porta in un momento di transito, di sospensione e rigenerazione, un’ispirazione chiaramente Kubrick-iana nell’evoluzione sonora e nelle sensazioni di distruzione confinante con la speranza, che avevo solo previsto qualche rigo sopra e che adesso risulta tanto chiara.
Non so quanto sottolinearlo, ma ho appena assistito alla sonorizzazione della nascita, lo sviluppo e la fine di un processo. Finché questa sospensione me ne ha fatto intendere la resurrezione, quindi la morte. Senza paura di dirlo e col sorriso. Una cosa ai limiti dell’indescrivibile.
Un finale di disco da urlo, con un una serie di sensazioni inequivocabili di grandezza, serenità e di vittoria della cura, del tempo, della dedizione. Paradossalmente l’unico aspetto con cui mi sono personalmente imbattuto in una fase dell’ascolto è proprio non essere più abituati ad ascoltare una cosa strabordante di cura e contenuti.
È una premessa banale, quanto evidentemente il problema di questa fase “rapida” e disinteressata ai contenuti; The Ascension potrà sembrarti un capolavoro e si lascerà ascoltare, a patto che tu davvero lo ascolti.