Birmingham, Alabama, profondo Sud degli Stati Uniti. Qui, nel 2012, un contabile annoiato da una vita ordinaria, decide di rischiare tutto e di dare forma ai propri sogni musicali. Si chiama Paul Janeway, e insieme al bassista Jesse Phillips fonda i St. Paul & The Broken Bones, band di otto elementi uniti da una passionaccia per il soul, il funky e il r’n’b. Il percorso musicale di Janeway, d’altra parte, si è sviluppato all’ombra del suono Stax e Motown: tantissimi dischi ascoltati da ragazzino, i primi passi mossi nel coro della chiesa, come nella miglior tradizione dei black singers, e le foto di Otis Redding e Sam Cooke tenute sul comodino del letto a indicare quotidianamente la strada.
La gavetta è quella consueta, fatta di piccole band non professionistiche, di prove in garage umidi, di concerti retribuiti poco e male, in piccoli locali della zona, di speranze alimentate solo dall’entusiasmo. A metà dei 2000, Paul inizia la (decisiva) collaborazione artistica con Phillips: nasce così una prima band semi-professionistica, The Secret Dangers, e le speranze di Janeway di uscire dall’anonimato si fanno più concrete.
La svolta, come detto, arriva nel 2012, quando gli appena costituiti St. Paul & The Broken Bones pubblicano un Ep autoprodotto (Greetings From St. Paul And The Broken Bones) che attira l’attenzione della Single Lock Records, casa discografica fondata da John Paul White (The Civil Wars) e da Ben Tanner (Alabama Shakes), il quale produce anche l’esordio della band, intitolato Half The City (2014). L’impressione suscitata dall’ottetto è tale che, non solo il disco scala, con ottimi risultati, le impervie charts americane, ma i Rolling Stones, in tour negli States, vogliono i St. Paul ad aprire due loro concerti. E’ l’inizio di una grande avventura proseguita con due dischi splendidi, Sea Of Noise (2016) e Young Sick Camellia (2018) e, quindi, con questo nuovo The Alien Coast, un lavoro che negli intenti del leader del combo dovrebbe possedere quello che viene definito “cosmic sound”.
Di sicuro, siamo di fronte a un album spiazzante, che taglia il cordone ombelicale con la prima parte di carriera, improntata a un r&b di scuola Stax e Motown, per esplorare territori meno conosciuti. Il cambiamento è un ingrediente naturale, qualcuno direbbe addirittura essenziale, nella maturazione creativa di un artista. Tuttavia, è sorprendente che la prima volta che la band registra nella propria città natale, là dove tutto nacque, si discosti così decisamente da quel linguaggio musicale originario, che aveva prodotto onori e gloria. I fan di lunga data, probabilmente, avevano già compreso, con Young Sick Camellia del 2018, che qualcosa stava bollendo in pentola, che il suono, un tempo decisamente immediato, si stava facendo più elusivo e complesso. Ciò nonostante, l'atmosfera “cosmica”, spesso minacciosa e privata dello scintillio degli ottoni che informa tutto The Alien Coast, e la sua costruzione di canzoni a forma libera, probabilmente sorprenderà anche coloro che si erano resi conto in anticipo di una possibile mutazione.
L’iniziale "3000 Ad Mass", che apre il disco con la voce di Janeway che ulula sulfurea su un tappeto d’organo e una ritmica martellante, dura solo un minuto e mezzo ma è talmente avvincente da strattonare l’ascoltatore verso le successive canzoni. Che sono davvero inaspettate, figlie di un percorso artistico che prende le distanze dal passato della band, in modo, forse, definitivo. Se è vero che il timbro vocale di Janeway continua a bagnarsi nelle più tradizionali acque del gospel e del soul, gli undici brani in scaletta sono, per così dire, insoliti: "The Last Dance" è un pezzo disco funk che paga debito a Moroder e ai Daft Punk, "Hunter And His Hounds" si dipana tra inquietanti trame dagli echi pinkfloydiani, mentre "Bermejo And The Devil" si dipana sensuale su ritmiche trap e "Atlas" impasta jazz, elettronica e chitarra acustica in un viaggio musicalmente avventuroso.
A complicare ulteriormente le cose, una buona parte di queste canzoni rifuggono da strutture convenzionali: ritornelli, lick, strofe e ponti sono liberi da regole e inseriti con una visione che, almeno all’inizio dell’ascolto, appare caotica, quasi inafferrabile.
La griffe della casa non è completamente sparita e il tocco soul persiste in ballate avvolgenti come la splendida "Ghost In Smoke". Ma sono episodi in un quadro dai colori sfuggenti, la cui astrazione, probabilmente, farà fuggire a gambe levate i fan della prima ora. I curiosi, invece, troveranno in questo The Alien Coast pane per i propri denti: St. Paul And The Broken Bones sono cambiati, bisogna prenderne atto, ma la loro musica, in un certo senso, oltre a essere più complessa, è addirittura migliore. Meritano, quindi, tutto il credito possibile, non solo per aver abbandonato una proficua comfort zone, ma anche per aver dato vita a un filotto di canzoni audaci, inaspettatamente sperimentali, imboccando una strada coraggiosa in un mondo in cui, purtroppo, la replica dei clichè è, prevalentemente, la norma.