In realtà quel momento storico, pervaso da un’estetica esasperata (e disperata), ha prodotto, come ogni decennio (che vogliamo dire, ad esempio, di certo progressive autoreferenziale degli anni ’70?) ciofeche inarrivabili e autentici capolavori. Se da un lato, synth pop, testiere di plastica e acconciature improbabili infestavano le classifiche di mezzo mondo, dall’altro, un sottobosco indie partoriva gruppi fenomenali come i The Gang Of Four, i Gun Club, i B52’s, i Pixies, i Bauhaus, solo per citarne alcuni, mentre a livello più decisamente mainstream, vivevano il loro periodo migliore band come gli U2, i Big Country e i Cure. E a ben vedere, permettetemi di vestire i panni dell’avvocato del diavolo, anche fra le miriadi di gruppi da classifica, possiamo estrarre da quel magma indicibile, band che il tempo ha poi rivalutato: cito per tutti i Talk Talk, che nel decennio successivo vestiranno i panni di padri del post rock, oppure i Tears For Fears, capaci di rinverdire i fasti beatlesiani con una scrittura brillante e molto meno banale di quanto generalmente si pensi, o ancora gli Housemartins, chitarre spiegate a favore di vento e northern soul nel sangue. E poi, ci sono loro, i Bronski Beat, terzetto di Brixton, che visse una sola stagione sull’onda del successo planetario di Smalltown Boy (il leader, Jimmy Sommerville, se ne andrà dopo il primo disco a formare i Communards). E sono proprio i grandi singoli estratti da Age Of Consent (oltre Smalltown Boy, anche Why? schizzerà in cima alle classifiche), a distogliere l’attenzione da un album la cui caratura artistica meriterebbe attenzione anche a prescindere dalle due hit citate.
Age Of Consent è in primo luogo un album barricadero e appassionato: in un’epoca in cui si utilizzava molto il termine combat rock per descrivere i fermenti provenienti dal nord della Gran Bretagna (si pensi agli Alarm, agli Aslan, ai Big Country e ai primi U2), per l’esordio dei Bronski Beat si potrebbe utilizzare il termine speculare di combat pop. Inseritisi nella scia della canzone militante, a cui aveva dato voce, qualche anno prima, la Tom Robinson Band, con il successo di Glad To Be Gay (magia del rock: un intero paese, etero compresi, nel 1978, si è messo a cantare all’unisono “Felice di essere gay”), Jimmi Sommerville e soci imbastiscono un album che, in piena era thatcheriana, tutta tea and tories, afferma senza mezzi termini i pari diritti per quelle che oggi chiamiamo “unioni civili”. Se sullo stesso terreno lottano, praticamente in contemporanea, gli Smiths di Morrissey, l’approccio dei Bronski Beat è però sostanzialmente diverso. Da un lato, le chitarre byrdsiane, un’iconografia dandy e decadente, e un messaggio filtrato attraverso riferimenti colti e letterari; dall’altro, invece, un linguaggio più diretto e, per certi versi più efficace, e un pop che, senza esibizioni caricaturali, guarda a certi modelli disco music degli anni ’70 (la cover di I Fell Love di Donna Summer non è un caso), innestandoli però in un suono plasmato sull’elettronica più crepuscolare della nuova onda. Espliciti, in tal senso, sono la copertina e il titolo dell’album. Age Of Consent fa riferimento senza mezzi termini all’età del consenso per le relazioni omosessuali (21 anni, rispetto a quella più bassa richiesta per le relazioni etero) e il triangolo rosa in campo nero, posto al centro della cover, è il simbolo utilizzato dal movimento per la liberazione degli omosessuali. Understatement zero, e il disco va subito al nocciolo della questione, senza tentennamenti. Così, l’incipit trascinante di Why?, raro esempio di dance music che accosta ballo e riflessione, diviene una pacifica chiamata alle armi contro ogni violenza omofoba. Ballare e riflettere, prendere coscienza, attraverso un testo (“All My Feelings Denied, Blood On Your First”) che si ricollega inevitabilmente alla citata canzone di Tom Robinson e a quell’incipit folgorante (“La polizia inglese è la migliore del mondo…hanno scelto gente a caso e li hanno spinti a terra hanno perquisito le loro case, chiamandoli froci”) ed esprime tutto l’orgoglio della propria diversità ("Me and you togheter, fighting for our love"). Il tema ritorna, ancora, in Smalltown Boy, ballata elettronica in grado di coagulare in cinque minuti tutte le malinconie del mondo. Rispetto a Why?, icastica nel veicolare un messaggio attraverso slogan, la prima hit dei Bronski Beat utilizza, invece, il racconto e il video per esplicitare il messaggio: la piccola provincia british, l’intolleranza, l’impossibilità di far comprendere, la solitudine interiore (And as hard as they would try, they’d hurt to make you cry, but you never cry to them, just to your soul), la vittima di abusi che diviene automaticamente il colpevole delle proprie diverse pulsioni sessuali. Non sono solo i contenuti, però, a rendere Age Of Consent uno dei migliori dischi partoriti nei tanto vituperati anni ’80. Se il marchio di fabbrica restano i due citati singoli (le uniche due canzoni di cui forse i posteri hanno memoria) e il falsetto soul di Jimmi Sommerville (un grande cantante, quando tiene a freno gli eccessi da consumato teatrante), nelle pieghe meno conosciute dell’album si nascondono autentici gioielli, costruiti con i piedi fortemente piantati nel presente (di allora), ma capaci di maneggiare con intelligenza soul, blues e, come detto, le ritmiche disco del precedente decennio. Imbastire una cover credibile di uno dei capisaldi dell’elettronica dance come I Feel Love (Donna Summer alla voce e Moroder al genio) non era facile, ma Sommerville ci riesce alla grande (anche grazie allo zampino di Mark Almond). Così come il notturno jazzy di Ain’t Necessarily So (altra cover da Porgy & Bess, a firma Ira and George Gerswing) è un colpo ben assestato alla tradizione, Junk rende ballabili le inquietudini post punk di derivazione mancuniana (il mood ossianico e la ritmica marziale si ispirano evidentemente ai Joy Division). Il capolavoro, però, è Screaming, terza traccia dell’album, e sublime compendio di elettronica, malinconie al neon e gospel, su cui impazza la voce di Sommerville, capace di portare il lamento degli schiavi neri americani nel cuore di Brixton. Un disco d’oro, due di platino e Smalltown Boy in cima a tutte le classifiche europee, sono l’effimero successo di una band che, dopo l’uscita del leader, non sarà in grado di ripetersi e che oggi vive solo negli ascolti e nei ricordi di qualche nostalgico degli anni ’80. Il quale, magari, non sa, o non rammenta, quanto fosse bello questo disco. Anche a prescindere da Smalltown Boy.