“Sono stato ispirato da quell’uragano di nome Earl Grant -artista americano popolare negli anni ’50 e ’60, ndr-, che suonava l'organo e il piano nello stesso tempo. Mia madre mi portò a vederlo. Così tornai a casa felice, ora sapevo ciò che avrei fatto della mia vita.”
Billy Preston, bambino prodigio predestinato al successo, non avrebbe bisogno di grandi presentazioni, ma la sua umiltà, direttamente proporzionale alle doti da virtuoso, i suoi tormenti interiori e forse un briciolo di sfortuna lo hanno sempre riportato dietro le quinte dello show business, ed è stato notevolmente sottovalutato, relegato dai più, nell’immaginario collettivo, al ruolo secondario di buon turnista, oppure a quello di eccellente esecutore nelle esibizioni dal vivo, nella sostanza però capitanate da altre star; invece sono importanti da ricordare pure la centralità di alcuni dischi imprescindibili sfornati durante l’inestimabile carriera e lo status di vero Top Player, uno straordinario prestigiatore dei tasti in possesso di un tocco così spirituale nella sua tecnica da renderlo unico. Sicuramente non ha raggiunto la celebrità che meritava, ricevendo comunque continue gratificazioni dai colleghi con cui ha collaborato. Stiamo parlando di un uomo che, con vivacità, generosità e tante idee per lo sviluppo delle canzoni, ha lasciato il segno in gruppi come Beatles e Rolling Stones, riportando innocenza e armonia che sembravano definitivamente perse. E pure Miles Davis, uno di quei personaggi che ha sempre cercato di lasciar trasparire il meno possibile le emozioni personali, facendole confluire principalmente nella meravigliosa musica che suonava, gli ha dedicato un brano intitolandolo con il suo nome e cognome in Get Up with It (1974).
Nato a Houston nel 1946, si trasferisce presto a Los Angeles, dove diventa una folgorante presenza nella scena musicale della stimolante città e addirittura già nel 1958 ottiene una parte in un film, interpretando Nat King Cole da giovane, nel biopic su W.C. Handy. Furoreggia con Mahalia Jackson, successivamente splende di luce propria nella live band di Little Richard e incide per Sam Cooke, che riprende il blues di Willie Dixon, Little Red Rooster, trasformandolo in una cavalcata soul carica di groove. Rimane leggendaria l’inventiva nelle sue lussureggianti parti di organo, le cui linee a tratti imitano i suoni di un gallo che canta e, seguendo il testo, cani che abbaiano e ululano.
“Billy è il giovane che voglio prenda in mano quello che ho iniziato ogni volta che penso di lasciare questo business.”
Un altro fiore all’occhiello del periodo è la partnership con Ray Charles, e la frase sopra riportata la dice lunga sull’ammirazione provata da The Genius per il ragazzo, che entra a far parte della sua band in un lungo tour (Europa e Australia, oltre ovviamente all’America) e risulta fondamentale nella realizzazione di alcuni singoli di successo come "Let’s Go Get Stoned" e "In the Heat of the Night".
Più tardi, Preston diventa una forza significativa in studio (e partecipa pure al famoso concerto sul tetto del 1969) con i Beatles, per Abbey Road e Let It Be, e raffigura uno dei momenti salienti degli spettacoli di beneficenza del 1971, The Concert for Bangladesh, facendo tremare le mura del mitico Madison Square Garden con una stellare "That's the Way God Planned It" intinta di gospel. Il suo stile originale, alimentato da blues, rock, soul e funk si sente in "Sticky Fingers" dei Rolling Stones e "There's a Riot Goin' On" di Sly and the Family Stone e rimane immortalato su davvero svariati altri dischi; inoltre prosegue il compimento di brillanti album solisti – siamo giunti al suo apice di carriera – fra cui I Wrote a Simple Song (1971), Music Is My Life (1972), The Kids & Me (1974) e Late at Night (1979), ognuno dei quali regala almeno una hit da ricordare, rispettivamente "Outa-Space", "Will It Go Round in Circles", quel capolavoro reso celebre da Joe Cocker che di nome fa "You Are So Beautiful", fino al duetto con Syreeta Wright in "With You I’m Born Again", forse il pezzo di lui più famoso anche quaggiù in Italia. Ma torniamo di nuovo al 1969, perché è con "That’s The Way God Planned It" che tutto cambia per il genietto texano, si tratta della sua quarta fatica, ma è la prima dopo aver firmato con la Apple e aver collaborato insieme ai Fab Four per Get Back (a proposito di Get Back, questo 45 giri pubblicato rappresenterà la prima e unica volta nella storia degli scarafaggi in cui figura un altro artista, appunto Billy Preston, accanto al loro nome).
Prodotto da George Harrison, che si destreggia anche con chitarre, sitar e moog synthesizer, vanta la partecipazione di altre luminose star già molto note in quel periodo: indimenticabili i contributi di Keith Richards, Eric Clapton e Ginger Baker. Risultano non da meno i frizzanti vocalizzi della fantastica Doris Troy che, invitata dalla collega Madeline Bell a prendere parte ai cori dell’intera opera, regala stilose pennellate di sentimento accentuando la matrice gospel già immanente nelle radici del protagonista, finendo per comporre insieme a lui "Everything’s All Right", "Let Us All Get Together Right Now" e "This Is It", tre pezzi sprizzanti ritmo, speranza e un tocco di allegria, incrocio fatale tra "Oh Happy Day" degli Edwin Hawkins Singers e alcune tracce presenti in All Things Must Pass del Beatle silenzioso.
L’incipit del disco è folgorante, con la calorosa "Do What You Want", rinfrescata a tratti da una nota di blue, di malinconia e si percepisce questa sensazione grazie al già citato Slowhand, con quella chitarra solista fluida e al contempo graffiante nostalgia, e la sorpresa di sentire il basso pulsante di Richards ben incastonato all’interno della composizione. L’organo del buon Billy è in primo piano e non riesce a contenersi, sembra una scheggia impazzita, ma non deraglia mai, dando l’impressione di poter continuare all’infinito. La romantica "I Want to Thank You", abbellita da una spolverata di fiati, evidenzia le doti canore dell’artista, il quale, parlando proprio in prima persona, ringrazia colei che è entrata nella propria vita cambiandogliela in meglio. Tale traccia fa parte di un precedente filotto di brani registrati con il produttore Wayne Shuler per la Capitol Records, poco prima del contratto con la Apple, insieme a "Hey Brother", riscrittura in chiave gospel/r'n'b dell’hendrixiana "Hey Joe" e "Keep It to Yourself", vaporoso acquerello brulicante di soul.
Due indovinate cover irrobustiscono la raccolta: lo spiritual "Morning Star", classico del ’58 di Nat King Cole, che aveva ripreso "Shine Like a Morning Star" di W.C. Handy con un nuovo testo del liricista Mack David, un vero ritorno agli esordi per Preston, e "She Belongs to Me" di Dylan, una canzone spesso riproposta nel tempo da svariati artisti, ma mai con tal eleganza e stravaganza. Se l’autografa "What About You", posta a metà opera e B-side della title track pare un riuscito tentativo di far suonare Sly and the Family Stone con un coro gospel, il finale è sontuoso, proprio con "That’s The Way God Planned It (Parts 1 & 2)", versione completa di oltre cinque minuti rispetto a quella ”radio edit” del singolo che si era rivelato un successo in Inghilterra, ricevendo fitto airplay anche negli Stati Uniti. Qui, come all’inizio dell’LP, si distinguono Clapton e Richards, ma soprattutto imperversa lui, languido menestrello di piano e organo, irrefrenabile pittore con una tavolozza di colori sempre cangiante, meraviglioso costruttore di melodie negli stupefacenti call and response con il chitarrista inglese.
L’edizione rimasterizzata su CD prevede tre bonus track: "Through All Times", sempre retaggio del frangente vissuto con Shuler/Capitol Records, uno sfizioso strumentale, "As I Get Older", scritto con Sly Stone e prodotto da Ray Charles - quanti meravigliosi incroci ancora! - e un’intrigante alternate take di "That’s The Way God Planned It", incisa prima di quella ufficiale, ricca di sfumature diverse.
Un album da ricordare per un uomo che ha dedicato l’intera esistenza alla musica, che fatica come tutti i suoi coetanei ad affrontare gli ’80 e vive un periodo difficile per disintossicarsi dalle droghe il decennio successivo, commettendo una serie di sciocchezze fino a finire persino in prigione. Un personaggio che con coraggio riesce a rimettersi in carreggiata: nel 1998 canta e suona in una particina nel film Blues Brothers 2000, mentre nel 2002 le sue interpretazioni di "My Sweet Lord" e "Isn’t It a Pity" commuovono nel Concert for George, struggente tributo all’amico ex-Beatle scomparso. Harrison non lo aveva mai abbandonato, come Eric Clapton, direttore artistico di quell’emozionante serata, che lo vuole protagonista per lo show e già sta usufruendo del suo tocco in studio e dal vivo. Inoltre pure Johnny Cash, per un paio di pezzi inseriti in American IV: The Man Comes Around, si avvale delle doti di Billy che, fra altre comparsate di rilievo, in seguito si cimenta, come solo lui sa fare, al clavinet in Warlocks, una delle tracce più incisive proposte dai Red Hot Chili Peppers su Stadium Arcadium.
Ma purtroppo ora che il mondo è tornato a sorridergli peggiora la malattia che da tempo lo affligge, non c’è mai possibilità per lui di vivere serenamente, combattuto tra fede in Dio e pulsioni troppo terrene, spavalderia sul palco e atteggiamento schivo e malinconico nella sfera privata. Non farà mai outing riguardo al suo orientamento sessuale, così legato al credo religioso, come si evince anche dal titolo dell’opera di cui abbiamo ampiamente parlato ad esempio, se non in punto di morte, avvenuta nel 2006 dopo un lento ma incessante deteriorarsi delle sue condizioni che lo avevano portato precedentemente anche a un trapianto di reni. Solo nel 2010, durante un’intervista con la sua manager Joyce Moore, moglie del mitico Sam, verranno alla luce gli abusi subiti da Preston in infanzia e la delusione per alcune relazioni con l’universo femminile terminate tragicamente. Un personaggio tormentato con un cuore d’oro e il blues nell’anima, che ha pagato per gli errori commessi e merita di essere ricordato come uno dei più grandi maghi delle tastiere, oltre che eccellente cantante e songwriter. Era un catalizzatore di armonia, basta leggere le parole di Harrison riguardo al suo arrivo nei Beatles.
"Si mise al piano elettrico, e subito ci fu un miglioramento del cento per cento nell'atmosfera della stanza. Era chiaro che tutto era cambiato in meglio. Avere questa quinta persona era abbastanza per rompere il ghiaccio ed eliminare quella barriera che si era creata tra di noi.”
Fly on, little Billy!