Un ultimo giro di campo dopo una gloriosa carriera: è il momento di prendere gli applausi e ringraziare quel pubblico di appassionati che, tra alti e bassi, non ha mai smesso di dimostrare il proprio affetto. Finisce qui la carriera dei Mr. Big, supergruppo di virtuosi dello strumento, che ha deciso di lasciare il palco dopo oltre trentacinque anni di battaglie e, come evocato dal titolo, dieci album in studio. E’ il canto del cigno del campione, che vuole lasciare a testa alta, chiudendo con la lungimiranza di chi sa che gli anni della gloria sono passati per sempre, e che un ultima buona performance accompagnerà il ritiro con il sapore di un dolce ricordo nelle orecchie dei propri fan.
Paul Glbert, Billy Sheehan, Eric Martin e il nuovo batterista, Nick D’Virgilio (che ha preso il posto di Pat Torpey, prematuramente scomparso nel 2018 a causa di una grave malattia) offrono, dunque, alla loro storia un ulteriore tassello: se il carburante è quasi esaurito e i giorni delle corse memorabili sono ormai retaggio di un lontano passato da guardare attraverso lo specchietto retrovisore, l’ultima corsa era da chiudere con una voluta derapata, per strappare ancora applausi e magari qualche “ooooh” di meraviglia fra il pubblico pagante.
Missione, almeno in parte, compiuta: se le ultime prove in studio della band lasciavano un po’ a desiderare e palesavano una certa stanchezza da routine, questo Ten conquista soprattutto per il rinnovato entusiasmo. Occhi come sempre puntati sugli anni ’70 e ’80, i Mr. Big ritrovano un gran bel piglio power pop, accantonando in parte quel rock pompato con cui avevano fatto fortuna, e aggiungendo maggiori elementi blues. C’è meno velocità nelle dieci canzoni (più bonus track) in scaletta, ma alla fine è un approccio che paga. La band sembra aver sposato anche un mood più essenziale, meno glamour, i numeri funambolici ci sono, ma sono limitati e spesi con misura (forse qualcuno si sarebbe aspettato un Gilbert più “estroso”), e alla fine il risultato è ben centrato, soprattutto nei momenti maggiormente melodici, che si fanno tutti ricordare con piacere.
La cadenzata "Sunday Morning Kinda Girl", a dispetto dalle chitarre rombanti, possiede un delizioso retrogusto beatlesiano nel ritornello, "Good Luck Trying" è un hard rock blues dal sapore settantiano che ammicca ai Deep Purple, e la martellante "Up On You" ruba il riff agli Ac/Dc e fila via che è un piacere (grazie anche a un assolo stratosferico di Gilbert).
Altrove, il disco suona più morbido e accattivante, grazie a brani come "Who Are You", piacevole ma niente di più, all’ottima ballad in acustico "The Frame" e all’esuberante e melodica "I Am You", brano furbetto e appiccicoso, pronto per conquistare numerosi passaggi in radio. E se "Right Outta Here", con le sue sonorità mediorientali, è parecchio risaputa, colpisce, invece, il vitale e travolgente rock’n’roll di "What Were You Thinking", un’ultima generosa dose di Gerovital.
Ten è un album ben prodotto (ci mette mano Jay Ruston, mica pizza e fichi) ed è un piacere ascoltare ogni strumento che si amalgama alla perfezione con gli altri, pur avendo abbastanza spazio per respirare. Altra nota positiva di un disco, che non regala momenti memorabili e non convince per originalità, ma offre, comunque, all’ascoltatore tre quarti d’ora di musica piacevolissima. E anche se la scrittura non è al massimo dell’ispirazione, Ten permette alla band di ritirarsi alle proprie condizioni, cosa che pochi, oggi, riescono a fare.
Mentre il libro si chiudeva sulla storia della band, l'inchiostro cominciava a seccarsi e l'autore era a corto di idee, questo finale è un ultimo colpo di coda più che dignitoso. Non sarà l’addio perfetto, ma è un addio che possiede ottimi momenti, quelli capaci di suscitare la lacrimuccia nostalgica.