Raccolgo la polvere da terra e la guardo mentre si disfa tra le dita. Poi raccolgo un pensiero, sempre da terra, e lo vedo mentre cambia forma per somigliare a qualcosa che so di poter dominare, conquistare, annientare. Alla terra la restituisco, fantasia facendo, come quella stessa polvere fatta di sassi e di fango. Ho sempre raffigurato questo nuovo disco di Luigi Porto come una chiave di volta per i miei lunghi viaggi avventurosi dentro gli infiniti e malati dialoghi con me stesso: un guardare dentro, in basso, un’esplorazione che riporti alla luce la fragilità e non soltanto i vizi. Perché è troppo facile condannare i vizi, lo è molto meno cullare le fragilità. Questo disco suona di nero, di psichedelia cadenzata con lenta e matura certezza, che si evolve nelle forme e nei modi che disturbano la quiete delle cose sicure, delle cose sentite, delle sante abitudini.
“È più facile far ascoltare i Megadeth ad una nonnina che non un qualcosa che devia dai canoni rassicuranti dei generi in cui molti si cullano”. (L. Porto)
Si intitola Tell Uric questo nuovo lavoro di Luigi Porto, produttore, compositore, avanguardista della forma prima ancora che del suono. Tell Uric gioca anche con il suono della parola tellurico, relativo alla terra, una terra che diviene anche direzione, verso il basso, condizione sociale, discriminazione e anzi, appartenenza. Si dipana dentro forme umane antiche, composizioni che sembrano orchestrali, altre che strizzano l’occhio al pop industriale (con immense virgolette), dove psych-folk e follia incontrano il lo-fi e l’America degli storytelling di cronache apocalittiche.
“Tellurico sono anche io, che da sempre mi arrampico per stare dove non appartengo”. (L. Porto)
Inutile decantare la sua carriera. Bisogna far girare questo vinile allo stesso modo di come restiamo in attesa di qualcosa che inevitabilmente ha tutto il diritto di non portarci comprensione e soluzione. L’ho trovato sospeso, salvifico e fortunatamente irrisolto. La dignità dell’esistenza e la morale di chi alla terra appartiene. Tell Uric alle regole chiede soltanto la libertà di poterle ignorare.
Dal basso. Partiamo da questa che non è solo una direzione, come indica la tua copertina. È sinonimo di discriminazione, di emarginazione, non è così?
È una cosa più drammatica della discriminazione, è un'appartenenza. L'idea nasce dal sospetto che si nasca e si muoia al livello a cui si appartiene, e che gli sforzi per "arrampicarsi" siano decisamente vani, per una sorta di spinta che, per l’appunto, ti riporta giù. È un concetto che ho provato a descrivere a parole ma mi riesce veramente difficile, ed ogni volta uso parole diverse. Per questo faccio musica e non politica, scrivo testi musicali e non saggi. Il concetto di Tell Uric è un fantasma che aleggia in tutto il disco, ma non è mai spiegato. Comunque, se dobbiamo usare una parola politica quella sarebbe "privilegio".
Visti i tempi che viviamo ti chiedo: quanto è finta e ancora primitiva l’emancipazione che si cinguetta ovunque?
Credo siano tutti sempre i soliti metodi di "coping" per combattere l'ineluttabile, o darsi l'illusione di addomesticarlo. La realtà ha regole crudeli, quando le ha.
Nero questo disco: che sia nero come la pelle del basso di questa working class (hero)?
Beh se parliamo per categorie di rock classico, è il mio "black album". Non c'è un motivo spiegabile per il nero, è un suono per me nero, così come il precedente Scimmie era un suono rosso acceso. La musica la "visualizzo" sempre, sono mancino, ragiono per visioni. Il suono è anche di per sé abbastanza scuro.
E con il colore nero, con le sue sfumature bianche, che rapporto hai?
Non so cosa intendi per sfumature bianche, ma penso che ogni musicista abbia un rapporto privilegiato, particolare con il nero. I dischi neri hanno una profondità solitaria tutta loro, penso ad Unknown Pleasures, al black album dei Metallica, a From Genesis to Revelation...
Tell Uric (o). L’uomo in qualche modo deve riferirsi alla terra o alla società?
Tellurico è chi dalla terra proviene e alla terra ritorna. Come la protagonista di Gabor, adottata, anzi comprata neonata da una coppia facoltosa, la cui esistenza però porta nella famiglia una tragedia perenne. È una storia vera. Tellurico sono anche io, che da sempre mi arrampico per stare dove non appartengo.
Parliamo di suono finalmente. Ho notato spesso, e me ne scuso anzitempo se sto dicendo sciocchezze, un drumming spesso liquido, poco deciso, poco industriale e decisamente etereo anche nel mix, anche nelle esecuzioni. O certi disegni di tempo come dentro “Sketch Building”, cosa ne pensi e soprattutto, se non sto delirando, quanto è filologico al concept?
È la firma di Massimo Palermo, con il quale abbiamo lavorato al drumming per moltissimo tempo. Le batterie sono gli strumenti in assoluto più lavorati, tentati e ritentati, cambiati mille volte prima di raggiungere la forma definitiva. Siamo stati sicuramente suggestionati dal drumming della psichedelia anni '60, quelle batterie liquide come dici tu, che giocano la loro parte al pari di altri strumenti e non a loro supporto. Anche se dal vivo questo elemento viene un po' messo da parte, perché con la band suoniamo i pezzi con un impatto più deciso per esigenze di palco. Ma quando incidi in studio puoi fare quello che vuoi, e mi è interessato "dipingere" anche con le percussioni. Ci sono canzoni di Tell Uric che hanno anche 70 takes diversi di batteria e percussioni.
E restando sul tema: in “The Roofing Really Needed” esistono due momenti oltre la chiusa in cui sembra quasi che il “nastro” rallenti, che la velocità del mio piatto rallenti. La prima volta ho alzato lo sguardo. La seconda anche. Poi ho capito che era voluto. Perché?
Così come in “Sketchy Building” ti sarà sembrato che la puntina saltasse. Mi piace sempre aggiungere un livello "ultimo" nella musica, lavorare sulle incespicature, le incertezze, stuprare la mia stessa produzione. Non è musica "certa" la mia, che sia un pezzo orchestrale o un brano rock, non c'è niente di certo, la realtà ha regole crudeli. Sei sicuro sia voluto? Potrebbe essere il tuo giradischi che si sta rompendo…
Raccontami di “Uljhan”. Mi viene da pensare ad una reclusione monastica che in fondo è estremizzazione di quel che viviamo in società quotidianamente…
“Uljhan” è il tema di un film del 2020, il cui titolo in inglese è "The Knot". È un film girato in India, un thriller che si muove all'interno delle contraddizioni e degli stridori tra i concetti di casta religiosa e classe sociale nella società indiana. Praticamente lo stesso tema di Tell Uric, e nulla accade a caso, nella mia vita le cose si sono sempre radunate per macro-aree, ed ho chiesto al produttore e regista il permesso di pubblicare il brano principale nel disco. Il film è stato presentato quest'anno al Marchè du Cannes e al Santa Barbara, e verrà presto distribuito in Italia. È un gran bel film di un regista, Ashish Pant, di cui sentiremo parlare.
Che legame c’è tra le fragole e una famiglia? Ho difficoltà nel cucire un senso in queste liriche assai scomposte, visionare certamente; sembrano oggetti sparsi che raccogli assieme a formare qualcosa.
“Family” in effetti è proprio un testo diviso in due parti separate, "Family" e "Strawberries". Sono due liriche distinte che però raccontano lo stesso concetto, un momento di quiete estatica, un attimo di serenità dove non c'è il fantasma dell'ambizione o dell'aspettativa. Per il resto, è banale anche dirlo, il senso non è detto che ci sia, o meglio, non è detto che la direzione intrapresa sia quella del senso.
A chiusa, senza usare etichette e orientamenti di stile. Questo disco pensi evolva un concetto di scrittura classica o cerchi di definire una regola all’anarchia delle visioni? O ancora, pensi sia l’ennesima dimostrazione che ogni via è percorribile?
Ti ringrazio di questa domanda. La parola che più ho letto sui miei lavori nella mia carriera musicale, è "spiazzante". Che a me ogni volta fa davvero piacere. In realtà però io non penso di spiazzare proprio nessuno, ho un percorso artistico ben definito e chi è abituato ad ascoltarmi trova facilmente riconoscibile la mia mano, che si tratti di un pezzo di musica elettronica, un trio per archi o un disco di canzoni folk rock. Alla fine mi chiamano "eclettico" ma io ho quei quattro-cinque modi di fare musica ed uso sempre quelli, anche a livelli molto banali, tipo non mi beccherai mai ad usare un bridge, spesso i brani si interrompono nel mezzo, la tonalità del refrain è sempre diversa dalla strofa in una canzone, e via così. Vizi. Ma forse oggi il mondo della musica cosiddetta "alternativa" è talmente orientato per compartimenti stagni ed auto-ghettizzazioni che si cerca per forza un "marchio di fabbrica" immediatamente palesato, che sia un particolare suono di chitarra, o una produzione, o una voce.
Per far girare i miei dischi, chi si occupa della promozione è sempre costretto, dopo che sono stati scritti, a capire in quale canale "prefabbricato" vadano inseriti, cercando di spiazzare il meno persone possibile. Nel disco precedente c'era musica elettroacustica ed elettronica, e poi su uno di questi pezzi c'era un rapper americano. Ti assicuro che nulla ha scandalizzato di più che quel brano rap nell'ambiente di fan di film music mitteleuropei. È più facile far ascoltare i Megadeth ad una nonnina che non un qualcosa che devia dai canoni rassicuranti dei generi in cui molti si cullano. Negli anni '60-70-80, ovvero quando il rock era giovane, era normale che artisti e gruppi cambiassero il proprio suono da disco a disco, lo evolvessero, o cercassero nuove, magari temporanee, direzioni. Anche all'interno dello stesso disco, non penso ci sia bisogno di "brandizzare" la musica rendendo i brani tutti noiosamente uguali per poter permettere ai critici di parlare di "coerenza" (che poi quanto questa sia un valore in sé, o quanto ci sia bisogno di liberarsi anche di essa, se ne potrebbe discutere).
Per me ogni discorso ha la sua storia unica, le sue sfumature di colore. Gli ascoltatori veri sono molto più intelligenti di quanto noi possiamo pensare e sanno cogliere l'unità, qualora ce ne fosse tutto questo bisogno. Se poi non hanno tempo di interiorizzare qualcosa che non si presenti per com’è già con la massima chiarezza, come uno spot pubblicitario, magari perché la musica gli serve da sottofondo a qualche altra attività, allora di certo questa non è roba per loro.
Quindi per rispondere alla tua prima ipotesi: si, volevo scrivere un disco di rock nella sua forma più classica e primigenia, ovvero al contempo familiare e inafferrabile.