L’adolescenza, si sa, è un’età strana: formiamo la nostra personalità, iniziamo a misurarci con i nostri gusti, cadiamo vittime di complessi e manie di persecuzione, ci chiudiamo in noi stessi in un primo tentativo di comprendere il senso della vita e il nostro ruolo sulla terra, ridiamo per un nonnulla e diciamo boiate pazzesche. Il tutto esplode, il più delle volte, nello stesso momento, tanto che per anni andiamo in giro, confusi e sopra le righe, come la nostra faccia piena di brufoli.
Noi maschietti, oltretutto, dobbiamo fare i conti con il nostro corpo, che non solo si modifica, come succede anche alle femminucce, assumendo lentamente quella che sarà la sua forma definitiva, ma che soprattutto, e all’improvviso, diviene la location prediletta per rave parties di ormoni impazziti.
Quando avevo tredici anni, ve lo assicuro, deambulavo perennemente con un chiodo (rectius: un tassello del 12) fisso in testa, l’amico testosterone sotto braccio e un allupamento pantagruelico nelle parti basse. Anni difficili, se si pensa che l’offerta era cospicua ma la domanda era perennemente stabilizzata su percentuali da recessione. Per cui, come dice il proverbio, la questione si risolveva in modo assolutamente artigianale: chi fa da sé fa per tre.
Il rischio, come spesso soleva ripetermi il prete in oratorio, era quello di rimanere ciechi; ma per uno come me, che già portava gli occhiali per un problema di miopia, la cecità era un azzardo assolutamente accettabile e il gioco valeva di gran lunga la candela. Erano tempi, però, in cui la mancanza di tecnologia imponeva di sistemare il bagaglio di prurigine quasi esclusivamente nello scomparto già affollatissimo della fantasia.
Youporn, infatti, sarebbe arrivato decennii dopo, di film in cassetta nemmeno l’ombra, e per comprarti un giornaletto, Jacula o Il Montatore, che andavano per la maggiore, eri costretto a viaggi della speranza verso edicole perse nel nulla, dove ti presentavi mimetizzato con sciarpa e passamontagna, e cercavi di arrochire la voce per sembrare più grande (ma nessun giornalaio, a dire il vero, se l’è mai bevuta).
Restavano, pertanto, pochissime possibilità di dare una certa consistenza ai nostri sogni erotici. La prima, che poi ho scoperto nel corso degli anni, essere un classicone dell’autoerotismo di quasi tutti i miei coetanei, era rappresentata dal catalogo della Postal Market, azienda italiana leader nella vendita per corrispondenza (e a tal proposito, colgo l’occasione per ringraziare Anna Bonomi Bolchini, ideatrice della rivista, per aver regalato alla mia adolescenza alcuni dei momenti più suggestivi che possa ricordare e ad aver contribuito massivamente a uno spargimento di spermatozoi della portata del diluvio universale).
Quando il postino arrivava con il Postal Market incelofanato, era una vera festa, e mia madre si è sempre chiesta da cosa fosse motivato quel sorrisone ebete che avevo stampato in faccia al momento del ritiro della posta. Ovviamente, occorreva fare i vaghi per un paio di giorni, il tempo che mia madre lo sfogliasse con cura e facesse gli ordini per ciò che le interessava. Poi, il Postal Market spariva, e la pagina dei reggiseni, indossati da splendide modelle che talvolta lasciavano intravvedere un centimetro di capezzolo, diventava la mia lettura preferita.
A fine mese, e chi ha orecchie per intendere intenda, lo spessore del catalogo era raddoppiato, così come le dimensioni delle mie occhiaie. Tuttavia, poiché non si poteva vivere di solo Postal Market, spesso si faceva ricorso alle così detta memopippa, deriva masturbatoria raffinatissima, grazie alla quale si memorizzava un modello femminile di riferimento, si sceneggiava una storia a tinte forti (nelle mie, dal momento che ero un ragazzo colto, c’erano anche i dialoghi) e si diveniva protagonisti di performances sessuali che nemmeno John Holmes dei tempi d’oro.
Bacino di estrazione per le protagoniste dei miei sogni erotici erano, dal momento che in tv non c’era praticamente altro, i telefilm. Dopo una cottarella durata qualche mese per Joanie “Sottiletta“Cunningham di Happy Days (non so perché, ma ogni volta che stavamo fisicamente insieme, l’atto si concludeva, da parte mia, con un vago senso di colpa e con il timore che Fonzie spuntasse fuori all’improvviso a spaccarmi il naso), decisi di puntare decisamente più in alto e mi fidanzai, con reciproca soddisfazione, almeno spero, con una delle Charlie’s Angels. Indovinate quale? No? Vabbè, ve lo dico io: Sabrina Duncan, che delle tre era la meno avvenente, ma aveva un quid intellettuale che mi arrapava non poco (e anche perché, diciamolo chiaramente, mi sembrava l’unica delle tre che, in una dimensione reale, non mi avrebbe mandato a cagare dopo due secondi netti).
Quando la passione per Sabrina si affievolì, trovai un nuovo modello di riferimento, una donna impegnativa, ma terribilmente sensuale: Chrissy Plummer, della serie Un Uomo In Casa (era quella mora, non la bionda Jo, che trovavo un po’ inisipida). Ci persi completamente la testa per un’intera stagione, fino a quando non decisi di troncare la storia perché troppo geloso del coinquilino Robin (per la cronaca, confesso di avere avuto un paio di avventurette di una sola notte anche con Mildred, e sempre mentre George se la ronfava sul divano).
Tuttavia, non passò molto tempo, che mi fidanzai definitivamente: avevo trovato finalmente la donna dei miei sogni, il vertice più alto di tutte le mie fantasie erotiche, la femmina che trasformava le memo-pippe in qualcosa di terribilmente reale, una cornucopia di sensualità e ammiccamenti che mi faceva sbiellare come un cammello ubriaco.
Lei, cari lettori, era la bellissima, inarrivabile, ineffabile Emma Peel, protagonista di Agente Speciale. Giuro che, anche oggi, quando rivedo qualche puntata di quel telefilm, mi passa un brivido di eccitazione lungo la schiena e per un attimo ancora, un attimo interminabile e dolcissimo, capisco di poter fare tranquillamente a meno del catalogo della Postal Market. Che ormai, dal 2007, non viene più pubblicato. Insensibili bastardi.