A dirla tutta, sono anche diversi decenni che non gode più del favore dei giovani, per lo meno in Italia (ma anche all’estero probabilmente, solo che in Inghilterra, Nord Europa, Stati Uniti o giù di lì c’è un mercato più ampio, tendenzialmente c’è posto per tutti). Possiamo fare tutte le discussioni che vogliamo e lamentarci che è uno scandalo che i nostri figli non ascoltino più i Beatles e i Rolling Stones ma è tempo di arrendersi all’evidenza: è roba superata. Il che, attenzione, non vuol dire che non sia valida. Lo ribadisco per l’ennesima volta: chi scrive ha un profondo rispetto per la tradizione, conosce perfettamente i nomi storici, possiede intere discografie dei ’60 e dei ’70, “Rubber Soul”, “Sticky Fingers” e “Blonde on Blonde” finirebbero in qualunque classifica mi chiediate di compilare. Detto questo, sono il passato. Che, attenzione ancora, non equivale neppure a sostenere che sia impossibile che un adolescente di oggi non ci si appassioni. Potrebbe assolutamente e ne conosco pure alcuni, basta essere educati e uno al bello e al vero ci arriva sempre e comunque.
Il problema è pensare che un certo tipo di rock, da Elvis a Dylan, passando per Beatles, Stones, Led Zeppelin e approdando a Springsteen, Petty e compagnia, sia ancora in grado di fungere da paradigma della contemporaneità e soprattutto di essere usato come strumento di contestazione. Che Tony Stark ascolti gli Ac/Dc e che “Immigrant Song” venga usata in un film di Thor non significa che questa musica sia attuale, bensì che è divenuta parte integrante della cultura occidentale.
Credo sinceramente che oggi non ci sia niente di davvero trasgressivo in ambito musicale. Il Rap non è trasgressivo, forse lo era quello dei primordi, forse lo era ai tempi di 2Pac, non certo adesso che flirta coi Brand e si muove con disinvoltura sui Social. Ma forse non ha neppure senso parlare di trasgressione, in un’epoca in cui le società sono divenute talmente liquide e frammentate che il singolo individuo ha a disposizione qualunque mezzo per plasmare la propria identità. Siamo liberi di essere quello che vogliamo, sempre e comunque, a che livello esattamente si può situare la trasgressione?
Tutto questo per dire che ogni discussione in merito alla vera natura dei Måneskin risulta decisamente superflua.
Il quartetto romano è un prodotto costruito, certamente. La gavetta l’hanno sicuramente fatta ma poi si sono fatti conoscere con X Factor e hanno vinto Sanremo. A prescindere da quello che si può pensare sui format in questione, un’esposizione mediatica del genere ammazzerebbe la spontaneità di chiunque, figurarsi quella di ragazzi così giovani. Ma di nuovo, non è un male essere costruiti. Il rock non ha mai avuto niente a che fare con la spontaneità, neanche quando la ostentava in maniera eccessiva, e se andiamo a pescare nel Glam a cui un po’ si ispira il look di Damiano e soci, lì eravamo proprio all’antitesi della naturalezza.
I Måneskin suonano rock e vengono venduti dall’industria discografica e dai mezzi di comunicazione come una band rock, che potrà fare la felicità di tutti quelli che si sentono orfani di questa musica. L’ho sentito ripetere più di una volta: “al giorno d’oggi il rock è morto, tutti usano i computer e cantano con l’Autotune, se quattro ragazzi imbracciano veri strumenti musicali (il virgolettato è mio) è solo un bene, anche se poi fanno schifo. Vorrà dire che i ragazzini che li sentiranno avranno voglia di imparare anche loro a suonare la chitarra o la batteria”.
Bellissimo, meraviglioso, davvero. A parte il fatto che non ho capito perché voler diventare un Beat Maker dovrebbe fare schifo o costituire un’impresa così semplice, il ragionamento di fondo mi sembra condivisibile.
Prendiamo i Måneskin per quello che sono, un gruppo di ragazzi che suonano discretamente, innamorati della musica e pompati dai media per ragioni che potranno anche sembrare oscure ma che, a scandagliarle davvero, non sembrano poi così assurde (per una volta non facciamo gli snob e guardiamo in faccia il fenomeno: dei numeri così non possono essere liquidati con un’alzata di spalle, dai). Ci piacciono? Non ci piacciono? Giudichiamo la loro musica e lasciamo stare tutto il resto, davvero, perché recensioni come quella di Stefano Solventi di qualche giorno fa su Sentireascoltare davvero non possono più essere lette e fanno male a quel poco di utilità può ancora avere la critica musicale.
“Teatro d’ira Vol.1” (che immagino voglia beneficiare dell’ormai consolidata abitudine di dividere le uscite in due parti per non stancare troppo la concentrazione da pesce rosso dell’ascoltatore) è nel complesso più a fuoco de “Il ballo della vita”, l’esordio del 2018. I nostri appaiono più sicuri, più consapevoli e dritti al punto, questo è sicuramente un bene. Il problema vero è che non hanno le canzoni. Siamo d’accordo che il genere che hanno scelto di interpretare non ha mai richiesto chissà quale originalità e gruppi come Motorhead e Ac/Dc hanno scritto lo stesso pezzo per tutta la carriera; qui tuttavia la scrittura appare davvero troppo stereotipata perché possa essere presa sul serio. L’impatto non manca, l’eccessiva presenza dei mid tempo penalizza un po’ ma nel complesso i pezzi hanno tutti un bel tiro, la sanremese “Zitti e buoni” posta in apertura è un buon biglietto da visita, l’insistere sullo stesso riff caricando di volta in volta la sezione ritmica e spingendo sulla voce è uno stratagemma che funziona sempre, seppure sia facile bollarlo come ingenuo. Anche Damiano è a proprio agio nell’economia globale: non ha chissà quale estensione vocale e credo che lo sappia anche lui, però ha un timbro potente e la decisione di utilizzare spesso la soluzione del Flow, a metà tra Anthony Kiedis e Zac de la Rocha, si dimostra perfettamente funzionale alla riuscita dei brani. Qua e là ci sono degli spunti da tenere: l’incalzare di “Lividi sui gomiti” per esempio, o la carica rabbiosa di “In nome del padre” (dove tra l’altro dicono apertamente, e sono certo della loro sincerità, che stare dove stanno non sia per nulla facile); quando la chitarra si apre maggiormente e si spingono per qualche istante in territorio Hard melodico, come ne “La paura del buio”, che è forse la migliore, si avverte il luccichio di potenzialità per il momento ancora inespresse.
“Coraline” è il tentativo di replicare il successo di “Torna a casa” e, detto tra noi, mi piace molto di più, per come cita un certo tipo di cantautorato Folk, prima di riempirsi di distorsione e dare spazio alla carica emozionale del ritornello. Molto molto telefonata, sia nel testo (la storia di una ragazza in crisi ma raccontata con parole troppo banali) che nelle soluzioni musicali ma si capisce che loro ne sono entusiasti e la passione con cui la suonano contagerà senza dubbio gli ascoltatori più giovani.
Stessa cosa per la conclusiva “Vent’anni”, un’altra ballata, questa volta a tema autobiografico, con delle linee vocali che funzionano, nonostante l’effetto déjà vu imperante.
Il tutto gode poi di una produzione sufficientemente ruvida, che evita quell’effetto patinato che ci si sarebbe potuti attendere da un’uscita così mainstream e che rende questi otto episodi ideali per un ascolto a tutto volume.
È vero rock? È finto rock? Non credo che sia lecito porre una domanda simile nel 2021. Questa band ha sposato dei cliché e l’ha fatto in un’epoca in cui questi stessi cliché vengono rimasticati, risputati e brandizzati da almeno due decenni, un’epoca in cui esiste Virgin Radio, un incubo orwelliano da cui pare non esistano vie di fuga (continuo a nascondere i loro Post su Facebook ma per un motivo o per l’altro continuano a ricomparire, è un’esperienza agghiacciante).
Detto questo, sono giovani, ci credono e hanno avuto la fortuna di esplodere presto, quando possono togliersi tutte le soddisfazioni derivanti dall’essere delle rockstar senza tormentarsi troppo col futuro o con le conseguenze. Sono ingenui, certo, si esaltano per riff e melodie fin troppo banali e non sembrano avere chissà quale profondità nella scrittura dei testi. Cresceranno, forse. E se rimarranno sempre così pazienza, non saremo certo obbligati ad ascoltarli.
I ragazzini li adorano e non ci vedo niente di male. Hanno conosciuto loro e si sono innamorati di loro, magari tra qualche anno, se continueranno ad amare questo sound, avranno voglia di comprarsi dei vinili dei Led Zeppelin, si incuriosiranno coi Rolling Stones e recupereranno pure una vecchia copia polverosa di “The Dark Side of the Moon” abbandonata in soffitta dal nonno. Ma senza andare così lontano, in Inghilterra ci sono The Struts e Nothing But Thieves che fanno cose simili leggermente meglio e perché no, potrebbero scoprire pure Strokes e Arctic Monkeys, band enormi e ancora in attività.
Insomma, lasciate che ognuno faccia il percorso che ha voglia di fare, senza dover per forza sputare sentenze. Lasciate che un adolescente si avvicini al rock partendo da quello che c’è adesso, imparate dal Rap, dove gran parte del pubblico vive in un eterno presente, assapora la novità ed è più legata al disco che esce piuttosto che al percorso di un singolo artista.
I Måneskin sono giovani, hanno tutto il tempo di crescere, lasciateglielo fare senza rompere troppo le scatole, che se pensate che la musica sia morta dopo gli Oasis potete pure evitare di gridarlo ai quattro venti ogni cinque minuti.
Con questo, per me il disco non arriva alla sufficienza ma hanno tutto il mio supporto e la mia simpatia, per quello che possono valere.