A Milano, quest’autunno, fu letteralmente devastante, una bellezza totalmente fuori classifica. D’altronde sono anni che Alan Sparhawk e Mimi Parker mettono in musica le paure dell’epoca moderna, scavano nell’oscurità dell’inconscio per riportare in superficie anche solo un barlume di luce, descrivono scenari che forse non vorremmo vedere; e allo stesso tempo, tuttavia, ci fanno intravedere di cos’è fatta la pace di cui ciascuno di noi ha bisogno.
“Double Negative” è stato il mio disco dell’anno e lo è stato non solo per la bellezza dei contenuti quanto, considerazione non indifferente, per il fatto che ha rappresentato un tentativo di mettersi in discussione, di dire ancora qualcosa di nuovo, di agire sulle strutture e sui suoni per fotografare al meglio il senso di decadenza e di dissoluzione dell’epoca contemporanea. È stato bravissimo BJ Burton (che aveva lavorato con loro anche sul precedente “Ones and Sixes”) a spingerli là dove probabilmente non pensavano di poter andare. “Double Negative” è un disco cupo ma non disperato, è un lavoro scritto da artisti che sono sulla scena da trent’anni e che non hanno molta intenzione di lasciarsi sconvolgere da quello che vedono.
Comunque sia, ad ottobre sono venuti a Milano ed è stato uno di quei concerti di cui non ti dimenticherai finché campi. Sei mesi dopo sono di nuovo in tour, questa volta a Padova, a Bologna e a Roma, sempre però nei teatri.
Che è poi il modo migliore per ammirare in azione la band di Duluth perché, a meno che non bombardino il pubblico con muri di feedback, la loro musica ha bisogno di spazi chiusi e raccolti per poter essere goduta appieno. E così ho fatto questo sforzo, ho preso la macchina e sono partito: magari non sarebbe stato bello come quell’altro, ma sarebbe stato difficile accettare di essermeli persi per libera scelta.
L’Antoniano questa sera è sold out e non poteva essere altrimenti, date le dimensioni ridotte ed il livello di richiamo del gruppo.
In apertura, veniamo intrattenuti brevemente da Lullabier, ovvero Andrea Vascellari, che come spiega lui stesso, ha preso il proprio monicker dal quasi omonimo brano di “I Could Live in Hope”, il primo disco dei Low. Il genere proposto non poteva che richiamare a loro: canzoni acustiche, scarne, con elementi Slowcore a mescolarsi con la tradizione cantautorale del nostro paese. Non tutti i brani hanno la forza necessaria per incidere e le stonature che infila dentro qua e là non aiutano certo l’effetto complessivo. Ciononostante, mi è venuta voglia di riascoltarlo con calma nella versione in studio: ci ho sentito qualcosa di interessante e voglio capire meglio di che cosa si tratta.
I Low salgono sul palco dopo un breve intervallo, durante il quale le luci del teatro rimangono spente. La disposizione è la solita: Alan a sinistra con la sua chitarra e una pedaliera con tutti gli effetti di cui ha bisogno; sua moglie Mimi al centro, con un drum set ridotto al minimo, che suona rimanendo in piedi, come da tradizione; a destra, Steve Garrington, il bassista, in formazione da una decina di anni, defilato, rischia sempre di essere schiacciato dalla personalità degli altri due ma in realtà è fondamentale nell’economia sonora del concerto.
L’allestimento del palco in questa nuova leg è molto diverso: sullo sfondo ci sono degli schermi al neon che trasmetteranno per tutto il tempo immagini sfocate, riprese con una telecamera a mano, che mostrano soprattutto paesaggi, probabilmente del Mid West. Queste si alternano con suggestive istantanee in bianco e nero, e a tratti compaiono tre candele come se servissero ad allontanare la notte incombente. Siamo totalmente al buio, infatti. Non ci sono luci, il palco è illuminato solo dai neon e dei tre musicisti possiamo scorgere solo le sagome, che si stagliano contro l’oscurità.
Per il resto, è la solita, devastante esperienza immersiva, a tratti sussurrata, a tratti romantica, in certi momenti ferocemente rumorista, in altri lenta e scura, ai limiti della destrutturazione.
La cosa che colpisce sempre, quando si ha a che fare coi Low, è come diavolo facciano a tirare fuori una tale bellezza essendo solo in tre sul palco ed avendo a disposizione solo il minimo indispensabile (perché al di là degli effetti che Sparhawk usa abbondantemente sulle sue chitarre, il resto è perfettamente limpido e naturale, con giusto quelle sporadiche concessioni all’elettronica durante le esecuzioni dei brani di “Double Negative”.
Alan è senza dubbio un chitarrista straordinario, per come riesce a disorientare l’ascoltatore cambiando più volte il punto di osservazione, usando il suo strumento in mille modi diversi, rendendo autentica bellezza anche la più semplice sequenza di note. Poi c’è l’impasto vocale tra lui e Mimi, perfetto in una maniera che non è possibile spiegare (forse solo il fatto che i due siano legati anche affettivamente da così tanti anni potrebbe essere una verosimile chiave di lettura).
Fatto sta che per un’ora e mezza abbondante rimaniamo fermi in poltrona, spesso e volentieri trattenendo il respiro, al punto che gli applausi entusiasti tra un pezzo e l’altro, che salgono d’intensità man mano che il concerto procede, hanno tutta l’aria di suonare liberatori. E ogni volta che si arriva alla fine di un brano, almeno per il sottoscritto, subentra la delusione: ci sono cose che vorresti durassero per sempre e probabilmente un brano dei Low, un qualsiasi brano dei Low, rientra in questo elenco.
Per cui perdonatemi se non ripercorrerò per filo e per segno la setlist (peraltro quasi del tutto identica a quella di Milano, anche se leggermente più breve) ma non credo di esserne in grado. Posso solo dire che la lunga versione di “Do You Know How To Waltz”, con la coda in crescendo fatta di accordi ripetuti, distorsioni e rumori, fino allo sfociare naturalmente in una “Lazy” da brividi, è stato senza dubbio il mio personale highlight della serata. Se la gioca però con “Nothing But Heart”, costruita su un progressivo riempimento, a partire da una prima strofa dove c’era solo Alan, chitarra e voce, una roba da togliere il fiato.
Ma ci sarebbe anche da parlare delle inquietanti pulsazioni di “Poor Sucker”, delle più accessibili ma non per questo meno suggestive “Holy Ghost” e “Lies”, del finale con le visioni distorte di “Fly” e “Disarray”, del meraviglioso encore di “Sunflower” a riportare la serenità, perfetta realizzazione musicale di quel “Peace be with you” con cui Alan ci ha salutato prima di attaccarla.
È stato ancora una volta grandioso, fuori classifica, l’ennesima prova che oggi, in termini di resa live, davvero pochissime band si avvicinano ai Low e che qualunque appassionato di musica dovrebbe vederli almeno una volta, non importa che la loro proposta susciti o meno il suo interesse.
Due sole note negative, che tuttavia non bastano per offuscare una serata che ricorderemo per sempre: un po’ troppo breve, anche per gli standard di questo tour (a Padova hanno concesso un bis in più, per dire) e un’acustica dell’Antoniano non impeccabile, che in certi momenti, quando la chitarra si alzava di volume e sparava la distorsione, provocava il fastidioso vibrare del soffitto, con conseguente effetto di saturazione.
Non rimane altro che aspettare un nuovo album e un nuovo tour. Personalmente, potrei reincontrarli al Primavera Sound ma non so se sono pronto a vederli in azione all’aperto, in mezzo ad un mare di spagnoli che parlano dei cazzi propri e a turbe di inglesi ubriachi dalle dieci di mattina…