Venuti fuori più o meno dal nulla all’inizio di quest’anno (sebbene siano in realtà attivi dal 2019), i londinesi Tapir! hanno saputo dare nuova linfa ad un genere, chiamiamolo per comodità Indie Folk, che negli ultimi anni sembrava essere caduto in un periodo di stagnazione. Ovviamente non parlo della declinazione più ingenua e superficiale portata avanti dai vari Mumford and Sons e Strumbellas (per quanto i secondi siano decisamente peggio dei primi) bensì di quella più profonda e articolata di Decemberists, Grandaddy o Midlake, che col loro suono hanno segnato indelebilmente una bella fetta dei primi anni Duemila.
The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain, che raccoglie i due EP e la manciata di singoli usciti nel 2023, ha rappresentato un esordio sorprendente, per il modo con cui il sestetto capitanato da Ike Gray ha saputo elaborare una materia tutto sommato canonica, mettendola al servizio di canzoni fresche, intelligenti e sufficientemente elaborate e profonde da non esaurirsi ai primi distratti ascolti.
C’è tanta roba, nelle loro composizioni, che toccano tangenzialmente anche il Canterbury Sound, la psichedelia e certe reminiscenze beatlesiane. Il tutto con una drammaticità e una tensione unitaria che li rende in qualche modo più maturi (e per certi versi anche più interessanti) di quei Black Country, New Road a cui, a torto o a ragione, sono stati più volte accostati.
In Italia ci sono già passati quest’estate, ad Ypsigrock (dove li ho visti io) e al Mojotic, e devono essersi trovati particolarmente bene, visto che hanno deciso di tornare addirittura per quattro date: Torino, Bologna, Montecosaro (provincia di Macerata) e Milano. Per quest’ultimo show la venue prescelta è ormai come da copione l’Arci Bellezza e la sala, pur non imballata, risulta comunque abbastanza piena, ulteriore segnale del consenso che la band sta raccogliendo dalle nostre parti.
Dal vivo i sei sono molto più “naturali” di quello che potrebbe apparire guardando le foto promozionali: privi delle buffe maschere rosse di cartapesta che erano divenute un po’ il loro marchio di fabbrica (un richiamo alla misteriosa “red creature” che fa parte del bizzarro concept mitologico dell’album, e che compare anche sulla copertina) mostrano senza problemi il loro volto e si dispongono sui due livelli del palco come se fossero una piccola orchestra.
C’è stato un cambio di formazione in line up: Emily Hubbard, che fino a quest’estate era con loro, ha lasciato il posto ad una nuova musicista che è stata presentata solo come Francesca (la cosa buffa è che di lei non c’è traccia da nessuna parte, non è menzionata neppure sui canali del gruppo, per cui immagino si tratti di un avvicendamento recentissimo, oppure solo temporaneo). Il cambio, dal punto di vista sonoro, è significativo: è sparita la cornetta, lo strumento a fiato che caratterizzava gran parte del suono della band, lasciando al solo violoncello (suonato dal batterista Wilfred Cartwright) l’onere dello strumento “atipico”. È rimasta invece l’elettronica, gestita da Francesca, che si occupa anche delle backing vocals.
Al di là di questo, la prova dei nostri è risultata più che positiva: Ike Gray è il direttore d’orchestra nonché centro propulsore dei vari brani, che prendono tutti le mosse dalla sua chitarra. La voce è solida ed espressiva, e colpisce soprattutto per l’uso frequente di un falsetto affascinante. Gli altri non sono da meno, col tastierista Will McCrossan a creare spessore e la batteria di Cartwright che dona quel tocco di calore e dinamicità in più, visto che sul disco era presente unicamente la drum machine (che compare anche qui, sebbene sporadicamente).
Esecuzioni tutte notevoli e coinvolgenti, con le varie sfumature dei pezzi che vengono rese magnificamente, e un accento maggiore posto sulle evoluzioni strumentali, a dimostrazione che abbiamo davanti un ensemble affiatato e in grado di padroneggiare alla perfezione il materiale (la lunga attività live dopo l’uscita dell’album ha evidentemente giovato) e che oltretutto colpisce per l’atteggiamento umile e rilassato con cui affronta il set: più che musicisti professionisti, sembrano sei ragazzi grati dell’occasione capitata loro, intenzionati solo a godersela il più possibile.
Oltre al repertorio di The Pilgrim… (di cui è doveroso segnalare una delicata “Eidolon” per voce e chitarra ed una struggente “My God”, compaiono anche i due singoli usciti a settembre (la divertente “Nail in a Wooden Trunk” e la più intimista “Hallelujah Bruv”) e tre brani nuovi: “Debt to the World”, con cui hanno aperto, “Hope Ur Proud” e “Clothing Line”, tutti bellissimi e rivelatori di un potenziale di scrittura al massimo livello.
In chiusura, non prevista in quanto, a detta loro, non la suonavano da circa un anno, ma richiesta a gran voce dalle prime file, arriva “Mountain Song”, che è anche il pezzo di chiusura del disco, nonché uno dei più liberi dal punto di vista espressivo. Esecuzione pregevole, nonostante tutto, con la reiterazione del tema finale ed il falsetto di Ike gran protagonista.
Li attendiamo col prossimo capitolo discografico ma già da ora possiamo dire che, se le cose gireranno per il verso giusto, dei Tapir! sentiremo parlare parecchio.