Tanto per cominciare, il remake del video di “Yellow” dei Coldplay, realizzato grazie all’intelligenza artificiale per la clip di “Grace”, è forse, almeno ad oggi, l’applicazione più pertinente e meglio riuscita della tecnologia deepfake. Un uso magistrale che si dovrebbe insegnare nelle scuole. Altro che capi di stato che dichiarano guerra ad altri capi di stato o personaggi famosi che straparlano a botte di corbellerie o tutte le altre stronzate che ci lasciano presagire che l’AI, dopo le tv Mediaset e i social, è l’invenzione che darà il colpo di grazia alla nostra civiltà come l’abbiamo conosciuta.
Ma è tutta la storia a essere bellissima: Joe Talbot che scrive un pezzo che parla d’amore e si sogna proprio Chris Martin nel fiore dell’età che, con la sua andatura dinoccolata sul bagnasciuga sotto la pioggia all’alba, intona tutto lo struggimento del suo omologo di ventiquattro anni dopo in sostituzione di quello (altrettanto melenso) della canzone originale di ventiquattro anni prima. E Chris Martin che, anziché sottrarsi al divertissement (o, peggio, andare per vie legali per questioni di copyright come un’isterica rockstar miliardaria qualunque, priva del senso dell’umorismo e dell’ironia con cui l’operazione è stata pensata) non solo concede il suo benestare per trasformare l'idea in realtà, ma contribuisce ad addestrare l'AI per rendere la sua performance vocale più realistica, in modo che il risultato balzi immediatamente ai vertici delle classifiche dei video musicali più iconici di tutti i tempi.
Non trovate tutto questo commovente? Il risultato è che “Grace” è una delle canzoni più significative della storia recente, un pezzo che potrebbe davvero stare nel repertorio dei Coldplay, perché no? La voce di Talbot è incredibilmente delicata e, con un arrangiamento più rassicurante, non sfigurerebbe nel repertorio di uno dei gruppi più famosi al mondo.
E poi c’è la questione dell’amore. Sembra che nei quaranta e rotti minuti di Tangk, Joe Talbot pronunci la parola love quasi trenta volte e dia sfogo, quasi senza soluzione di continuità, a buoni sentimenti come la freudenfreude, quello stato d’animo da oratorio che consiste nel provare gioia per la gioia degli altri, o la gratitudine per ogni mattino che ci viene regalato. Tenete conto che il suo approccio al prosieguo di Crawler è stato quello di rispondere a urgenze condivise, a partire dal mondo in caduta libera post-pandemia, e ad altre molto personali, e decisamente agli antipodi tra di loro, come il lutto e la passione.
Ma il britpop, le dita che si uniscono a forma di cuore e Hall&Oates non sono le sole cose che mai ti aspetteresti di trovare in un album degli Idles. Pensate alla melodia a bocca chiusa nel finale di “Idea 01”, così spiazzante da sembrare un violino interpellato a chiudere una prima traccia praticamente perfetta, un incipit che chiunque, in futuro, gli invidierà, con quell’accompagnamento di piano suonato dal chitarrista e co-produttore Mark Bowen (sporcato a opera d’arte) che accompagna una melodia straordinariamente premurosa, preludio all’amore nella dimensione paterna di “Gift Horse”.
E pensate a “Pop Pop Pop”, con quella metrica da ninna nanna a cavallo tra la conta che fanno i bambini per designare sotto a chi tocca e alla trap. Ma anche il soul di "Roy", con un Talbot in versione Otis Redding, lo stile più adatto per farsi perdonare dalla propria amata per certe cose dette la sera prima, e una band sotto che suona un punk-blues decisamente oltre ogni aspettativa. O ancora la voce sussurrata di “A Gospel”, coda naturale della traccia precedente, tutta pianoforte e archi. Per non parlare del modo di edulcorare il brutalismo degli esordi in “Jungle”, vero capolavoro dal suono indefinibile, e del sax che si erge repentino dalle macerie negli ultimi istanti di “Monolith”, ancora un sorprendente blues scelto come improbabile chiusura di una tracklist in grado di lasciare di stucco anche gli animi più scettici.
Di certo mettono più a nostro agio le volte in cui la band manda affanculo tutto e tutti, re compreso, violenta gli strumenti con una distorsione disumana, percuote le pelli dei tamburi con la rabbia tipica dell’hardcore (“Gratitude” su tutti), urla tutto il suo disagio possibile e invita al pogo con il patrocinio e il bpm disco-punk degli LCD Soundsystem.
E sapete come andrà a finire, vero? Andrà a finire che, al cospetto di questo album monumentale, l’amore per gli Idles (e l’amore secondo gli Idles) ci dividerà di nuovo: apocalittici e integrati, o detrattori e entusiasti, insomma quella dicotomia lì. Il punto è che la band di Talbot ha bruciato le tappe. Cinque long playing in sette anni e ora si trova già in quella fase di presunta morbidezza in cui cascano tutti, quella in cui gli snob dei “mi piacevano i primi due dischi”, i più pessimisti, gli intransigenti e i disillusi del bicchiere mezzo vuoto vedono solo compromessi e decadenza, mentre i più curiosi e intelligenti, chi, in genere, approccia l’arte come naturale evoluzione della multiforme indole umana, riconosce il vero genio.
Se state dall’altra parte, quella che avrete capito essere opposta alla mia, quella sbagliata, insomma, vi lancio un’altra provocazione: provate a fare sempre uguale la cosa che vi piace di più e poi ne parleremo quando, del vostro estro, rimarrà solo un mozzicone impossibile da impugnare. Per me, un disco come Tangk è uno di quelli che, tra trenta o quarant'anni, definiremo, anzi, definirete epocale, una delle opere più influenti della vostra vita, il punto di non ritorno per una band punk sempre meno post e ormai molto radicale nel suo non esserlo come gli Idles che, sono sicuro di averlo scritto da qualche parte e di ripetermi, sta alla moda musicale del momento come i Killing Joke di “Wardance” stavano all’analogo movimento nel primissimo scorcio degli anni Ottanta.
Con Tangk gli Idles hanno ampiamente sconfinato nell’empireo degli artisti che fanno la differenza. Una scalata alla vetta già avviata con il precedente Crawler (bello come solo sa essere un’opera di passaggio) che taglia definitivamente ogni legame con la genuina ferocia degli esordi e definisce al meglio un gruppo di musicisti che hanno tutto lo spazio e il tempo per esprimersi al massimo e in ogni forma.
La speranza è che gli Idles siano diventati sin nel midollo tutto questo: cattiveria sperimentale, impeto con il valore aumentato della ricercatezza, rabbia che tracima nell’avanguardia artistica grazie alle larghe intese con tutte le cose belle con cui vale la pena mescolarsi. Il risultato è una assoluta meraviglia, la più credibile colonna sonora degli anni venti, un’opera in cui la raffinatezza di cui è pervasa stride meravigliosamente con l’idea che abbiamo maturato degli Idles, in tutto questo tempo. Le loro pose truci, il look beffardo, il suono gratuitamente aggressivo, la mancanza di grazia compositiva e quel mix di cinismo e di noncuranza come conseguenza della sfacciataggine incosciente figlia dell’insicurezza.
Sulla morale di Tangk c’è poco da dire. Come la favola di Esopo “Il Sole e il vento del Nord”, che ne ha ispirato la composizione, “No god, no king, I said, love is the fing”, pronunciato così, con la F al posto della TH come fanno i veri gentleman, ci ricorda che la gentilezza e la cortesia vincono dove la forza e la spavalderia falliscono. Un approccio che, nel punk rock, si mette in pratica con una produzione come quella di Nigel Godrich, il sesto Radiohead, per capirci. Di sicuro, Tangk è un ellepi che nessuno dovrebbe assolutamente lasciarsi sfuggire, un album intriso di suoni e parole d’amore da urlare sgomenti, il più efficace deterrente al senso di vuoto invadente di questi tempi pessimi che, detto tra noi, ci sono ottime possibilità che siano davvero gli ultimi.