Basta farsi un giro in rete, per comprendere come l'hype intorno ai britannici Sleep Token abbia raggiunto un livello altissimo, costruito disco su disco, a partire dal loro esordio datato 2016 (l’EP One), e ravvivato a ogni nuova uscita, che ha portato il duo dallo status di band di culto a vero e proprio fenomeno commerciale. Vessel 1 e Vessel 2, questi i nomi dei componenti del gruppo, hanno incuriosito il proprio pubblico, utilizzando l’escamotage del mistero (la band si esibisce in maschera e i musicisti nascondono completamente la loro identità) e plasmando un suono, sulle cui coordinate convergono la potenza del metal e una massiccia dose di pop, soul, trap, ambient ed elettronica. Un’idea, questa, senza dubbio vincente, se si pensa, che il primo singolo tratto da Take Me Back To Eden, "The Summoning", ha ottenuto su Spotify sette milioni di ascolti in un solo mese. Ed è altrettanto straordinario come numerosissime testate, soprattutto metal, si siano sperticate in elogi, gridando a una miracolosa “new sensation” (che proprio new non è).
Successo meritato, dunque? Siamo davvero di fronte a un disco affascinante e imperdibile? A parere di chi scrive, no, e per quanto abbia ascoltato e riascoltato Take Me Back To Eden, non riesco a trovare davvero nulla che mi faccia saltare dalla sedia per l’emozione o che mi trovi d’accordo con chi ha incensato questo terzo album in studio.
In primo luogo, è meglio metterlo subito in chiaro, questo non è un disco di metal, che, nell’ora abbondante di durata dell’album, è il genere che trova la collocazione più residuale. Certo, alcuni brani, come la parte finale dell’iniziale "Checkhold", la citata "The Summoning" e in parte "Vore" sono belli pompati, ma non basta una chitarra ribassata o qualche estemporaneo momento di screaming, a fare di Take Me Back To Eden un disco metal. Non fraintendiamo, il suono meticcio è cosa buona e giusta, e avrebbe funzionato molto bene se le aperture pop e trap, l’appeal radiofonico, le sensazioni soul fossero state inserite in un contesto di musica estrema. Qui però accade il contrario, e le brevi escursione nel djent sembrano spinte a forza in un tessuto completamente diverso, risultando spesso poco funzionali, decontestualizzate e fuori sincrono. Cioè, inutili. Che ci si trovi di fronte a gente brava a suonare, non si può negare; ma è pur vero che, per quanto il duo abbia talento, e gli arrangiamenti siano molto eleganti, la produzione livella tutto con quel suono americano da FM e dal retrogusto adolescenziale, capace di far venire l’orticaria anche all’ascoltatore più ben disposto.
Non aiuta, poi, il timbro vocale di Vessel 1, così sofferto, lamentoso e impostato, da far venire in mente quello di Aaron Lewis degli orridi Staind.
Cos’è, dunque, Take Me Back To Eden? E’ un disco costruito per accumulo, un grande melting pot in cui confluiscono generi, stili e influenze con lo scopo di creare un approccio innovativo che vorrebbe essere spericolato e seducente e che, invece, appare più confuso che altro. Come quando fai la valigia e cerchi di farci stare tutto, anche le cose completamente inutili, sedendoti sopra e sperando che alla fine si chiuda. Ma non è così. Troppo lungo il disco, troppe lunghe le canzoni, troppo artificioso il connubio. Non tutto è da buttare, certo, l’uno due inziale già citato, tutto sommato funziona, così come il morbido arpeggio che attraversa "Are You Really Ok?", e qui e là qualche spunto si trova. In scaletta, però, prevalgono un senso di disorientamento, un filo di noia e la perenne sensazione di trovarsi di fronte a un grande artificio privo di anima.