Nonostante il cinema di Ken Loach viva sempre in funzione di un obiettivo ben preciso, di una comunicazione da veicolare, di un'urgenza da supportare, di un tema da esporre e sostenere, non di meno quello stesso cinema vive anche di numerose sfumature e variazioni, questo pur rimanendo sempre nei confini del sociale e sempre e comunque dalla parte dei deboli, dei vessati, degli svantaggiati e vicino ad alti ideali considerati dalla società odierna poco più che barzellette.
Con Sweet sixteen Loach non mette al centro del discorso le contraddizioni e le storture del mondo del lavoro (inevitabile che siano comunque lì ad aleggiare) ma si occupa questa volta di adolescenza, di ragazzi cresciuti in famiglie ai margini, figli di drammi e criticità, nati in quartieri periferici difficili con poco da offrire, dove delinquenza e degrado minano le possibilità di erigere fondamenta per il futuro.
È lo stesso Loach a dichiarare come, dopo l'esperienza della realizzazione di My name is Joe di qualche anno prima, sentisse la necessità di tornare su una storia più personale, che affrontasse drammi privati e familiari di un ragazzo che avrebbe potuto essere uno dei tanti che il Joe del film precedente allenava nella sua squadretta di calcio per tenerli lontani dai pericoli della strada (in effetti in entrambi i film siamo a Glasgow e vi compare un Liam che potrebbe essere lo stesso ragazzo).
Liam (Martin Compston) vive nella periferia di Glasgow con il nonno delinquente e con il compagno di sua madre Jean (Michelle Coulter), mentre la donna è in prigione per vecchie storie di droga e dipendenza. Questa sorta di patrigno, Stan (Gary McCormack), vorrebbe usare Liam come una sorta di corriere per introdurre droga nel penitenziario dove è custodita Jean al fine di farle avviare un giro di spaccio dietro le sbarre.
Liam, nonostante sia già cresciuto e anch'egli avviato sulla via delle delinquenza insieme al suo amico Flipper (William Ruane), nutre ancora un amore viscerale per la madre e si rifiuta di passarle la droga nel timore che questa possa ricadere nel vizio e prendersi altri mesi da scontare in galera. Liam viene così pestato da Stan e si rifugerà a casa della sorella Chantelle (Annmarie Fulton), una giovanissima ragazza madre che non ha un buon rapporto con Jean.
Liam ha un sogno, comprare per sua madre un piccolo prefabbricato dove andare a vivere insieme quando Jean finalmente uscirà di galera; per realizzare questo sogno e anche per vendicarsi di Stan, Liam decide insieme a Flipper di rubare una partita di droga da casa di Stan per spacciarla poi per conto proprio, così facendo i due ragazzi si troveranno però a confrontarsi con i delinquenti del giro che conta, la posta in gioco si alzerà, i soldi aumenteranno ma con essi aumenteranno anche i rischi di un gioco più grande di loro.
Non ha nulla di dolce la vita di questo sedicenne di periferia, l'esistenza tragica e dolente di Liam è ben sottolineata da una Glasgow tetra e triste. Come molto spesso accade per i film di Loach anche per questo Sweet sixteen ciò che conta è il cosa il regista inglese vuole farci vedere, ciò che vuole raccontarci (miglior sceneggiatura a Cannes) e non tanto il come.
Quello di Loach è un cinema spontaneo, che non si affida alla trovata di regia, all'inquadratura perfetta, alla scena spiazzante bensì a una narrazione coerente e carica di significato, sottolineata e resa credibile come sempre da attori indovinati e sconosciuti. Qui siamo di fronte alla società dello sconforto, quella fetta di mondo che sembra essere stata abbandonata non solo dallo Stato ma anche dall'istituzione familiare (con l'eccezione qui della sorella Chantelle per Liam). È una società che costringe un ragazzo di sedici anni alla prematura rinuncia ad ogni suo sogno; il film di Loach è un racconto di formazione della disillusione, dell'amarezza e della caduta, della sconfitta dell'individuo e soprattutto della società tutta di fronte a un'illegalità capace di creare più opportunità (ovviamente illusorie e alla fine tragiche) dello stesso Stato.
Magari non tutti i personaggi sono a fuoco, non tutto è perfetto ma ancora una volta Loach in qualche modo riesce ad arrivare a coscienze e cuori, nel tentativo di smuovere qualcosa, di non far calare l'attenzione di fronte a problemi che affliggono migliaia di persone. Però, purtroppo, come spesso accade di fronte a opere come queste, e forse lo abbiamo già detto, il rischio è quello per un regista come Loach di parlare solo ai già convertiti. E ovviamente la colpa non è sua.