Sull’ultimo numero di Rumore Francesco Farabegoli scrive così: “Per essere un fan dei Dinosaur Jr. devi essere almeno un pochino come i protagonisti delle canzoni di J Mascis: un briciolo d'indolenza, la sensazione di essere sul punto di essere schiacciato, e poi arriva una parte di chitarra rumorosissima.”
Ecco, direi che la recensione potremmo finirla qui. Difficile trovare parole che sintetizzino meglio quella che da più di trent’anni a questa parte è la vera essenza di questa band. Allo stesso tempo è difficile, se non proprio del tutto inutile, cercare frasi e pensieri nuovi che facciano il punto sul nuovo disco di un gruppo che, da qualunque parte la si voglia vedere, non ha mai mutato di una virgola i connotati del proprio sound.
A ben vedere, è anche piuttosto assurdo che i Dinosaur Jr. esistano ancora nell'universo musicale odierno, dove la comunicazione dell'immagine conta di più della sostanza e dove un certo tipo di carriera, lunga e storicamente connotata, sembra piuttosto ardua da immaginare. La band di Amherst, Massachusetts, appartiene ad un'epoca in cui l’estetica sonora aveva una connotazione identitaria ben definita, al periodo in cui il rock indipendente americano si contrapponeva veramente a tutto ciò che era mainstream e in cui certe band, che fossero i Pavement o i Fugazi, avevano realmente la pretesa di salvare la vita.
Io non ho vissuto quell'epoca e francamente non riuscirei proprio a dire se sia stata meglio di quella odierna. Non ho mai creduto alla nostalgia e alla mitizzazione del passato e ho il forte sospetto che le narrazioni edulcorate dietro cui ci rifugiamo siano appunto un escamotage per non riflettere troppo su quel che stiamo vivendo.
Stiamo alla realtà dei fatti, che è sempre l'opzione migliore: i Dinosaur Jr. tornano a pubblicare un disco cinque anni dopo “Give a Glimpse of What Yer Not” ma il tempo non sembra passato. Bastano le prime, rumorose, note di “I Ain't” per essere riportati su quel terreno famigliare fatto da vocal malinconiche e vagamente scazzate e chitarre ultra distorte. J Mascis, Lou Barlow e Murph registrano a casa loro, girano un video dannatamente low budget nel paesaggio nevoso che vedono tutte le mattine alzandosi dal letto e perseverano in un sound ruvido e da “buona la prima”, questa volta coadiuvati dall’amico Kurt Vile. L'ex War On Drugs (anche se chiamarlo così è riduttivo, visto tutto quello che ha combinato in seguito) fornisce la sua esperienza dietro la consolle e presta la sua chitarra al singolo “I Ran Away”, mettendo in chiaro, se mai ce ne fosse stato bisogno, da dove provengano le sue radici artistiche.
Per il resto, “Sweep It Into Space” è il solito eterno disco dei Dinosaur Jr., suona esattamente identico a tutto quello che hanno fatto in passato ma (e qui sta forse il vero punto di novità), è decisamente più ispirato delle ultime prove, soprattutto se paragonato a lavori come “Farm” e “I Bet on Sky”, che mostravano qua e là eloquenti segni di stanchezza.
Qui l'alchimia tra i tre appare rinvigorita e le abilità di songwriter di J Mascis fanno di nuovo la differenza. Se vi sembra poco provateci voi, a scrivere sempre la stessa canzone per 35 anni, riuscendo ogni volta a risultare convincenti e a fornire elementi sufficienti ad emozionare l'ascoltatore.
Che sia il riff roccioso di “I Met the Stones”, le chitarre fragorose di “Hide Another Round”, le cavalcate di “To Be Waiting” e “I Expect It Always”, la languida bellezza acustica di “Garden”, la comparsa a sorpresa del piano in “Take It Back”, qui ci sono i Dinosaur Jr. all'apice della loro forma creativa, ritornelli che sembrano racchiudere il senso dell'esistenza, melodie struggenti annegate nel rumore, il rumore che si stempera e lascia spazio a melodie che chiedono solo di essere cantate a gran voce, la formula scontata ma ben difficile da realizzare veramente, secondo cui sono le idee più semplici a risultare il più delle volte le più efficaci.
Nella stessa recensione che ho citato all'inizio, l'autore constatava che quando un gruppo come questo non ci sarà più, si tratterà di una perdita culturale enorme perché nessuno oggi porta avanti un discorso di questo tipo.
Eccola qui, la vera essenza di “Sweep It Into Space”: tre americani over 50 che suonano come se fossero ancora i primi anni ‘90, non perché non si siano accorti che il tempo nel frattempo è passato, ma perché questa musica e questi suoni sono il modo migliore che hanno per dire che amano suonare e amano la vita. Il rock come una cosa da tizi qualunque vestiti male in un posto qualunque degli Stati Uniti. Il rock come un “It's not a big deal” buttato lì a caso e via con l'ennesima canzone bellissima. Non so voi, ma questo è il motivo per cui gente come Rolling Stones e Ac/Dc sono invecchiati malissimo e invece i Dinosaur Jr. sembrano ancora una cosa fighissima e non vediamo l'ora di poterli rivedere dal vivo, come quella sera d'estate di qualche anno fa al Carroponte, con il pubblico zeppo di pioggia e loro che, imperterriti, ne suonavano una dietro l'altra e sembravano quasi felici.