A farla breve, il primo grande merito dei Giallorenzo è stato quello di sintetizzare all’interno di una sola band le migliori caratteristiche dei progetti dei due membri fondatori: Pietro Raimondi (Montag), un vero e proprio talento per la scrittura melodica di stampo Indie Lo Fi, e Giovanni Pedersini (Malkovic) che ha saputo dare nuovo impulso alle chitarre distorte e all’irruenza Emo Punk di scuola americana. Con l’aggiunta di un componente per parte delle rispettive formazioni (il bassista Fabio Copeta e il batterista Marco Zambetti) hanno dato vita ad un act che suona tanto fuori posto nell’Italia musicale odierna quanto è invece sempre più indispensabile (e lo dice uno che l’It Pop mica lo schifa, anzi).
Non occorre ripetere quello che ha rappresentato per il sottoscritto un disco come Milano posto di merda, arrivato come un’epifania nel settembre 2019, a dimostrare come ancora si potesse emozionare con pochi e dosati elementi di un background stilistico che dalle nostre parti non si vedeva sin dai tempi dei Verdena.
Irruenza espressiva, carico emozionale da cameretta notturna con musica a palla nelle cuffie (“Forse scrivere un pezzo che ascolterei al liceo non è il modo migliore per provare a spiegarmi” cantano emblematicamente nel loro ultimo singolo) e un sottofondo tematico a metà tra il surreale e il nonsense, anche se mai fine a se stesso, sempre con la convinzione che la vita è una cosa seria e come tale va presa.
Super Soft Reset è una fotografia trasfigurata ma allo stesso tempo fedele di quello che gli ultimi due anni hanno rappresentato per loro, tra interruzione dei live e l’affermazione di un regime di reclusione che ha impattato volente o nolente sulla dimensione interiore. Da qui l’idea di spegnere e riaccendere il sistema, raccogliere le idee, realizzare un disco per provare a ripartire.
Il secondo capitolo del quartetto milanese (terzo, se contiamo anche l’EP Fidaty) è, come lo definiscono loro stessi, “un bigino di alternative punk anni 90-2000”: lo hanno realizzato in presa diretta, suonando in studio come se fossero in sala prove, un procedimento che oggi come oggi appare sempre più desueto. Merito in questo caso di Andrea Maglia e Carmelo Gerace, bravissimi a catturare l’essenza del sound del gruppo, in un perfetto equilibrio tra ruvidezza e apertura melodica.
Super Soft Reset è un disco che, pur conservando quella dimensione ironica e a tratti “leggera” che è tipica del gruppo, non nasconde di essere frutto di un lungo periodo di stanchezza e sofferenza: da questo punto di vista, le chitarre ribassate di un tono ed una maggiore impronta aggressiva dei singoli brani possono aver rappresentato la modalità privilegiata di esprimere questo disagio.
Cloud Nothings, Pedro The Lion, Happy Diving, Cosmetic, Alex G., Jesus and Mary Chain: scorrendo la lista delle influenze da loro stessi richiamate si capisce ancora meglio come la conciliazione tra il muro di suono delle chitarre e la forza dirompente dei ritornelli fosse l’obiettivo principale da perseguire.
Ci sono riusciti alla grande, fatto salvo che stiamo parlando di un lavoro complessivamente più scuro e ripiegato su se stesso, decisamente meno accessibile del disco di debutto ma che ancora una volta spicca per il livello della scrittura. Pietro Raimondi (che firma la maggior parte dei brani) da questo punto di vista ha un talento vero ma la differenza rispetto a Montag è che qui ha trovato dei compagni d’avventura in grado di dare forma concreta ed efficace alle sue visioni.
L’opener “Any%”, coi suoi chitarroni in primo piano, l’incedere marziale e il refrain liberatorio, costituisce il biglietto da visita ideale per quel che seguirà. Pochi gli episodi davvero melodici, ma “Corolla” e il singolo “Provarci”, ideale congiunzione coi Verdena degli esordi e coi Built To Spill di “Keep It Like a Secret” sono ideali esemplificazioni di come questa band sappia andare sempre dritta al punto nel sviluppare le idee: starò forse esagerando ma credo oggi in Italia pochi abbiano questa forza espressiva, questa capacità di fare evolvere brani da due minuti in maniera inaspettata, con le melodie che escono fuori dal nulla, con idee e soluzioni che spiazzano l’ascoltatore svoltando la direzione del pezzo.
“Cruciverbone” ha un incedere massiccio ed è uno dei pezzi più aggressivi del lotto, poi nella seconda parte le atmosfere si incupiscono un po’ e arriva una serie di brani più aggressivi, di matrice Punk Rock (“Medium”, “Se ti penso”, “Play Lover”) anche se l’alternanza tra parti lente e veloci garantisce sempre una certa dinamicità all’interno delle singole strutture.
C’è poi “Match”, che è un vero e proprio inno, perfetto anche dal vivo, come ho già avuto modo di constatare (ma del resto tutto l’album funziona benissimo in sede live, dopotutto è stato pensato per essere gettato addosso ad un pubblico sudato e pogante) e che ha questo verso “Inseguire i sogni è una cazzata di destra” che da solo fa capire cosa Raimondi sia in grado di fare anche come paroliere; e poi il divertissement di “Caduta libera!”, coi suoi accordi a scendere inesorabili al grido di: “Sta arrivando un altro lockdown. O forse è già qua, come il mio ferro da stiro nuovo. Stendo e mi riposo”. Simpatico nonsense che però suona anche come un modo per esorcizzare una fase, sperando di essersela lasciata alle spalle.
Chiude “Tubo”, inusuale ballata acustica impreziosita dal violino di Clara Gerelli. “Sicuro di niente, riparto da tutto quello che non mi aspetto: è che siamo qui adesso”. Parla di altro, questa canzone, ma i suoi versi finali sono la migliore dichiarazione d’intenti che i Giallorenzo potessero fornire per affrontare al meglio tutto quello che succederà da adesso in poi. Vivere l’istante, con la consapevolezza di aver scritto uno dei dischi italiani più belli del 2022. Decisamente non è poco.