L’indie-pop non è certo musica per ribelli, ma se la abbiniamo ad un pizzico di elettronica, ad un immaginario goloso e colorato e a tanta voglia di divertirsi, l’affermazione cambia i suoi connotati, ritrovando il suo senso in una cornice leggera, ironica e vivace, come quella della musica dei Chapel.
Sunday Brunch è il primo EP del duo di Athens (Georgia), formato dal cantante e chitarrista Carter Hardin e dalla batterista Kortney Grinwis. Pubblicato a novembre 2017, il disco risulta la perfetta colonna sonora per una domenica mattina. Di quelle piene di sole, in cui ci si sveglia tardi e con tanta fame, dove si ha solo voglia di sedersi a mangiare qualcosa di goloso per poi uscire di casa e andare a stravaccarsi in un parco.
Sunday Brunch ha tutto il necessario per un gustoso e spensierato pic-nic: pancake, frullati, uova, bacon, indie pop elettronico, sintetizzatori leggeri, atmosfere vivaci e tanto colore. Il tutto in sole 7 canzoni e 24 minuti.
La giocosità che si respira nell’ascolto del disco e alla vista dei video, in cui vediamo i due ragazzi avvolti tra litri di sciroppo d’acero, sfondi con colori a tinta unita e rimasugli di feste in casa, porta a sorridere e canticchiare, oltre che a sviluppare l’aspettativa di un live che metta in scena un immaginario in linea con le premesse.
In un giovedì di metà maggio, al live in supporto agli Sleeping With Sirens ai Magazzini Generali, la prima domanda che giunge alla mente è però una: come questi indie-poppers potranno conquistare un pubblico devoto all’emo-core più adolescenziale?
I ragazzi infatti, il 17 maggio, hanno diviso il palco con due presenze impegnative. Da un lato hanno dovuto essere all’altezza degli ottimi Chase Atlantic, che, pur essendo i primi in scaletta, in apertura all’apertura, hanno realizzato un ottimo show. E non solo per l’appeal che il cantante ha avuto sulla platea di ragazzine urlanti (petto nudo e capelli lunghi hanno aiutato la causa), ma anche per grande flow delle canzoni e la capacità di coinvolgere l’intero locale tra cori e budging hands, ricreando un atmosfera da piccolo club americano. Suonare con la stessa convinzione e stile che si porterebbe davanti ad un pubblico di migliaia di persone non è da tutti, e il successo avuto tra i presenti è stato meritato.
Dall’altro lato, i Chapel hanno dovuto evitare di sfigurare davanti agli headliner della serata, gli Sleeping With Sirens, i quali, qualche decina di minuti dopo il loro show, sono stati accolti dall’acutissimo urlo di tutte le ragazzine presenti (le cui tonalità, però, non hanno mai eguagliato le vette raggiungibili dal cantante). La voce di Kellin Quinn, per quanto non equalizzata al meglio, tra acuti e falsetti, è riuscita comunque ad essere più alta di quella delle sedicenni da cui è costituito gran parte del pubblico della band. Musicalmente invece (fonico a parte), i giovani boys della Florida hanno dato il loro meglio, intrattenendo e suonando con passione e precisione. Rispetto alle band d’apertura, le atmosfere sono state ancora più emozionali, raggiungendo uno dei picchi più teneri nella dichiarazione di Kellin che, dopo qualche canzone, ha detto timidamente al microfono “non guardatemi tutti che ho paura”, e una delle vette più emotivo-commerciali nella cover di “Iris” dei Goo Goo Dolls e nel successivo set di brani più acustici.
Schiacciati in questo sandwich emo-core, i Chapel (secondi in scaletta) sono riusciti comunque ad emergere.
Il pubblico ha risposto sorprendentemente bene alla loro proposta indie-electo-pop, nonostante ciò non fosse scontato, visto il sound non perfettamente in linea con le sonorità della serata. Il live, di per se stesso, è stato anch’esso positivo, ma con un piccolo spazio per qualche nota critica.
Rispetto all’album, infatti, dal vivo non tutto è riuscito come avrebbe meritato, ma non sempre per colpa loro.
Principale fattore da tenere in considerazione nel commento, soprattutto in associazione agli altri gruppi della serata, è che i ragazzi, in quanto duo, hanno scelto di presentarsi sul palco solo in due. Una scelta non automatica e non sempre semplice da gestire (quanti i gruppi che per i live si fanno accompagnare dal vivo da uno o più turnisti?), che rimane però fedele al loro progetto e porta in scena la realtà e l’energia intima e vitale dei dinamici due. Da un lato abbiamo Carter, un animale da palcoscenico a cui va il merito di riuscire a riempire e reggere bene la scena, coinvolgendo il pubblico e garantendo un cantato di qualità nonostante le mille corse da un lato all’altro del palco. Dall’altro lato abbiamo Kortney, che suona la batteria come se danzasse, rapita dalle sue stesse canzoni, con gli occhi luccicanti e tutto il corpo che si muove a tempo.
Il palco non è enorme e la loro presenza non si disperde, ma qualche vuoto di troppo tra una canzone e l’altra (che non può sempre essere colmato dal ritmo della cassa) e un utilizzo prepotente delle basi fanno emergere alcune domande. Se vi fossero un paio di musicisti aggiuntivi, non sarebbe per loro più facile? Oppure, in prospettiva, visto il colorato gusto pop che dimostrano nei video, perché non giocare sul multimediale, proiettando immagini e pattern sul fondale? La musica è colorata, vivace, moderna, ma lo show è ancora scarno, penalizzando un po’ la frizzantezza della proposta.
Il duo, però, ha del potenziale: con un fonico più attento, capace di far fluire con più armonia sia le basi delle canzoni e sia il loro mood più elettronico, oltre che con qualche piccolo aggiustamento, i ragazzi potrebbero puntare anche a palchi più grandi. L’attitudine e la simpatia ci sono, e la capacità di coinvolgimento pure. Per più di qualche canzone il pubblico li ha seguiti con energia, battendo le mani sulle note della bella “Caught Up” in apertura, ondeggiando sulla cover di “Creep” dei Radiohead o tornando a saltellare su “Don’t you love me”.
Per un gruppo di ragazzi così giovani, attivi da pochi anni, con solo questo ep sulle spalle, la strada per arrivare al successo è ancora lunga, ma se continuano così, l’orizzonte a cui tendere sarà colorato e vivace come loro.