“Summerteeth” ha compiuto vent’anni lo scorso anno e questa tardiva celebrazione di anniversario va a coincidere con l’uscita del nuovo lavoro solista di Jeff Tweedy, che, ancora più di “Ode To Joy”, al momento l’ultimo disco di inediti dei suoi Wilco, ha messo in chiaro come ormai l'artista di Chicago si trovi pienamente collocato in quella fase della carriera in cui publico e critica tendono a guardare più al passato che al presente e ad ogni uscita si cimentano nell'impietoso (e alquanto inutile) confronto coi vecchi classici.
Se per chi scrive la parabola creativa dei Wilco si è esaurita con “The Whole Love” (il successivo “Star Wars” poteva avere ancora dei momenti di notevole interesse ma da lì in avanti c’è stata sempre tanta qualità ma all'insegna del manierismo più sfacciato) rispolverare “Summerteeth” diventa importante perché costituisce l'esatto spartiacque tra l’eccellente band di Alt Country di fine anni Novanta e uno dei gruppi Rock più importanti del nuovo millennio.
I Wilco di fine secolo in effetti vivevano ancora all'ombra degli Uncle Tupelo, con Jeff Tweedy che, staccatosi dal (all’epoca si pensava) ben più talentuoso Jay Farrar, non era ancora riuscito a brillare di luce propria. “A.M.” e soprattutto il doppio “Being There” erano già lavori splendidi e parecchio a fuoco ma assomigliavano ancora troppo alla sua band precedente e in più, manco a farlo apposta, il chitarrista Jay Bennett era considerato un autore e un musicista superiore a Tweedy, così che ancora una volta il singer aveva trovato sulla sua strada qualcuno che, seppur involontariamente, era pronto a rubargli la scena.
Gran parte dei brani che andranno a comporre “Summerteeth” fu scritta durante il lungo tour di supporto a “Being There” e fissata provvisoriamente su nastro nell'ambiente fidato dei Kingsize Soundlabs di Chicago sotto l'egida di Mike Hagler e Dave Trumfio, ma poi i lavori vennero interrotti perché Billy Bragg aveva deciso di coinvolgere Tweedy e soci nell’ambizioso di messa in musica di una serie di testi inediti di Woody Guthrie, patrocinato da sua figlia Nora.
Alla fine i volumi di “Mermaid Avenue” furono tre e nonostante in quelle due ore e quaranta di registrazioni ci siano alcune delle cose più belle mai incise dai Wilco, quell'esperienza costituì un serio banco di prova per la tenuta del gruppo. Jeff Tweedy in particolare non era granché in forma, stava facendo un uso un po’ troppo disinvolto di cocaina e Vicodin, mentre Jay Bennett aveva appena smesso di bere, cosa che non contribuì esattamente a renderlo una persona più rilassata. Per la fase finale delle registrazioni Billy Bragg e Wilco si trasferirono in Irlanda e fu un'esperienza piuttosto stressante, anche perché vennero alla luce alcune divergenze di vedute tra le due parti, soprattutto per quanto riguardava il missaggio e l’impronta sonora da dare alle varie canzoni.
“Summerteeth” venne ultimato sull'onda di questa esperienza, da un gruppo che non era neanche quasi più un gruppo, con Tweedy e Bennett sempre presenti in studio, mentre il bassista John Stirratt e il batterista Ken Coomer, che pure avevano contribuito a plasmare i brani nella loro forma definitiva, rimasero parecchio in sottofondo (all'epoca i due non vivevano più a Chicago da un po’ ma non credo sia stata questa l’unica ragione del loro passo indietro).
Ma contingenze a parte, il terzo disco dei Wilco è un mezzo capolavoro, ideale prologo per quelle che saranno le autentiche pietre miliari della loro discografia.
Fu il disco in cui Jeff Tweedy si smarcò dal Country per buttarsi nel mondo scintillante del Pop anni ‘60, con Beatles, Beach Boys, Zombies e Kinks fissi nella mente e un uso dello studio di registrazione in stile George Martin, tra mille sovraincisioni e sintetizzatori usati dapprima in modo un po’ casuale e poi ficcati gioiosamente dappertutto.
Fu il primo disco in cui fecero uso di Pro Tools, tecnologia ancora piuttosto embrionale, espediente che anticipa il modo disinvolto con cui giocheranno ad editare i brani già nel lavoro successivo (qui evidente in particolare nella sovrapposizione di Take operata in “Via Chicago”).
Fu il disco in cui Tweedy rivelò in pieno il suo talento di paroliere, anche se la crudezza di certi versi gli attirarono non pochi problemi all'epoca, con lui che dovette affrettarsi a spiegare che quando cantava “I dreamed about killing you again last night and it felt alright to me” non si riferiva affatto alla moglie.
Ancora più importante, “Summerteeth” è un album pieno di grandi canzoni. Ci sono futuri classici come “Via Chicago”, “A Shot in the Arm” e “She's a Jar”, ci sono autentiche bordate Power Pop come “ELT” e “Nothing'sevengonnastandinmyway (again)”, ballate struggenti come “How To Fight Loneliness” e “We're Just Friends”, significative anticipazioni di quello che sarebbe divenuto di lì a poco il loro marchio di fabbrica (“I'm Always in Love” e la title track).
E pazienza se la Warner si mostrò piuttosto tiepida, individuando in “Can't Stand It” un possibile singolo ma costringendo il gruppo a realizzarne una versione riveduta e maggiormente patinata (Lenny Waronker e Mo Ostin non lavoravano già più nell'etichetta e probabilmente questo spiega tutto): “Summerteeth” vendette poco e quindi di lì a poco vennero scaricati ma se quel disco è ancora tra i preferiti dai fan, ne ha effettivamente tutte le ragioni.
Aggiungiamo che l'edizione commemorativa merita di essere acquistata anche da chi già possedesse l’originale: oltre ad un disco di demo, outtakes e versioni alternative dal valore storico notevole nel momento in cui permette di cogliere il processo di lavorazione nel suo divenire (tra i brani rimasti fuori dalla tracklist definitiva, forse perché troppo sperimentale per quello che era la band in quel momento, c’è da segnalare la meravigliosa “Vikin Dan”), spicca un doppio cd con la registrazione integrale (qualità audio eccellente, bisogna dire) di un concerto a Boulder, Colorado. Siamo a novembre, il disco è uscito da otto mesi e le sue canzoni risultano già perfettamente rodate e ben amalgamate col vecchio repertorio. Una performance stellare, una delle ultime di questa formazione (Jay Bennett avrebbe suonato su “Yankee Hotel Foxtrot” ma avrebbe lasciato il gruppo subito dopo le registrazioni, mentre Ken Coomer già non era più presente) con una scaletta ben assortita che include quasi tutto il disco, alcuni degli episodi migliori dei due precedenti, qualche estratto da “Mermaid Avenue” (brani ormai classici come “Hesitating Beauty” e “California Stars” ma anche una grande versione di una non comunissima “Christ for President”) e persino un brano, “New Madrid”, ripescato direttamente dal catalogo degli Uncle Tupelo. Un documento prezioso, soprattutto se consideriamo che l’unico live ufficiale pubblicato finora dal gruppo risale a quindici anni fa (ma per i completisti ci sono un sacco di registrazioni disponibili su nugs.net).
Di lì a poco “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born” avrebbero cambiato per sempre la storia del Rock Alternativo, rischiando di far passare in secondo piano il loro predecessore. Eppure, ascoltato ora, anche senza doverlo per forza contestualizzare come abbiamo fatto ora, il terzo lavoro della band di Chicago suona attuale come non mai, dimostrando di aver superato in pieno la prova del tempo.