Premessa doverosa: questo libro mi è stato consigliato e mi è stato presentato come il libro di un “Tolstoj al femminile”.
Ora, chiunque abbia letto Tolstoj capirà che le aspettative erano per forza di cosa altissime. Tuttavia, anche in considerazione dell’entusiasmo unanime della critica (che non è mai un buon segno), ho cercato di affrontare questa lettura con obiettività e senza condizionamenti preconcetti di alcun genere.
Risultato? Nella consapevolezza di essere assai impopolare in questa mia affermazione, la Némirovsky, a mio avviso, sta a Tolstoj come Nostalgia canaglia di Albano e Romina sta a Stairway to heaven!
Ma procediamo con ordine. L’autrice aveva progettato una specie di poema sinfonico sotto forma di romanzo, in cinque movimenti, di cui Suite francese include i primi due, dal momento che la Némirovsky, in quanto ebrea, fu deportata nel 1942 ad Auschwitz e morì nel lager prima di poter completare l’opera. La figlia conservò il manoscritto fra gli effetti personali della madre per cinquant’anni prima di “scoprirlo” e farlo pubblicare, peraltro con un successo straordinario (e a parer mio inspiegabile).
La prima parte della storia si svolge nel 1940 a Parigi: a causa dei bombardamenti, i parigini si apprestano ad abbandonare la città e, in particolare, nel libro, si seguono le vicende di diversi personaggi in fuga, un misantropo collezionista di porcellane, una famiglia aristocratica, un’altra della media borghesia, un artista snob con la sua amante… Non c’è personaggio che non risulti, in un modo o nell’altro, scontato: tutti fanno esattamente quel che ci si immagina. Solo che lo fanno peggio. Le descrizioni di ambienti e personalità sono di una banalità sconcertante, con un linguaggio monotono e tendente al patetismo in maniera fastidiosa. E su tutto domina la pretesa di fare una critica della società francese, del suo individualismo e della classe dirigente.
La seconda parte non è da meno: siamo all’inizio dell’occupazione tedesca, in una casa di campagna nella periferia francese. Due donne aspettano il ritorno di un uomo dalla guerra; sono sua madre e sua moglie. Ovviamente, lui è grasso e meschino, la madre è una tiranna e la giovane moglie è una bionda stupenda, ma riservata e infelice. Colpo di scena: sono costrette ad ospitare un giovane (e magro e sensibile) ufficiale tedesco. Nuovo colpo di scena: la giovane moglie e l’ufficiale si innamorano. Davvero una girandola di emozioni e di eventi inattesi.
È pur vero che a questa originalissima vicenda si intrecciano anche altre storie più o meno importanti, ma l’effetto è sempre lo stesso: banalità, prevedibilità, linguaggio stucchevole e monotono. Insomma, l’esaltazione di lettori e critici mi pare del tutto ingiustificata.
Ora, va detto che la vicenda personale dell’autrice, naturalmente, ha tutta la mia solidarietà e comprensione; inutile dire che rimanda alla vicenda più drammatica della storia del Novecento, e non solo, e alla tragedia di un popolo intero. (D’altra parte l’autrice, pur essendo di famiglia ebrea, non è mai stata una conoscitrice della religione e della spiritualità ebraica; nei suoi romanzi, anzi, accoglie tutti i peggiori stereotipi dell’epoca riferibili agli ebrei. Certo: alla fine è costretta a seguirne il tragico destino e probabilmente la cosa dovette rappresentare per lei un’ingiustizia doppia). Ma diciamocelo francamente: non è che tutti quelli che hanno alle spalle un’esperienza traumatica, per quanto epocale, siano giocoforza dei grandi scrittori, addirittura tali da essere paragonati a Tolstoj!!!!
A tale proposito, mi sento di dire che la Némirovsky è stata certamente un’attenta lettrice, anche di Tolstoj, e si vede. Ad essere illuminante su questo punto è l’Appendice in calce al libro in cui sono riportati gli appunti autografi sul libro (e sul progettato seguito) tratti sempre dal famoso diario. L’autrice scrive: “Non dimenticare mai che la guerra finirà e che tutta la parte storica sbiadirà. Cercare di mettere insieme il maggior numero di cose, di argomenti... che possano interessare la gente nel 1952 o nel 2052. Rileggere Tolstoj. Indispensabili le descrizioni, ma non storiche”. Tutto chiaro: chiunque abbia letto il grande autore russo ne avrà apprezzato le descrizioni, storiche e non, e allora non posso fare a meno di pensare che forse il pregio della Némirovsky è l’aver saputo imitare Tolstoj, cosa non da tutti certamente, ma che non la pone automaticamente al suo stesso livello. Altrimenti non si spiegherebbe come mai il madonnaro a Via Roma non si veda i propri quadri esposti al Louvre!
Insomma, in questo romanzo c’è molto di artificiale, di studiato, e proprio il sapere in che momento personale e storico è stato scritto, rende ancor più stridente questa artificiosità rispetto alla realtà. Un esempio su tutti: in più occasioni, i personaggi femminili si trovano in giardino e, puntualmente, intorno a loro svolazzano i calabroni: “Per qualche istante, in quel piccolo giardino fiorito, mentre le ronzavano intorno i calabroni intenti a saccheggiare un cespuglio di campanule amaranto, la ballerina provò a immaginarsi l'avvenire”;“Lucile aggiungeva qualche punto al suo ricamo, poi lo lasciava cadere in grembo. Sopra la sua testa i fiori di ciliegio attiravano vespe e api [...] mentre un grosso calabrone dorato, che sembrava farsi beffe di quelle solerti lavoratrici, si dondolava sull'ala del vento come su un'amaca, muovendosi appena e riempiendo l'aria del suo canto placido e solare”. Ora, vi sfido a restare calmi e impassibili quando intorno a voi ronza un calabrone! Sembra un’inezia, mi rendo conto, ma leggere questi passaggi veramente dà l’idea di qualcosa di artefatto, completamente “finto”. Del resto, l’autrice stessa lo sapeva se nei suoi appunti annotava “In generale, non c'è abbastanza semplicità!”. Senza contare che si era posta un obiettivo preciso; infatti scrive: “Quali sono le scene che meritano di passare alla posterità?” e, tra le scene scelte, segna anche “Se voglio fare qualcosa che colpisca, non descriverò la miseria ma piuttosto la metterò a confronto con la ricchezza”, cosa che le riesce abbastanza male a mio giudizio.
Alla base, sembra esserci una grande fiducia nelle proprie capacità e il desiderio di piacere ai lettori, per cui, più che esprimere qualcosa che sente, le sue personali convinzioni, le sue esperienze, prevale il voler andare incontro alle aspettative del pubblico o comunque della propria idea di pubblico (Non dimenticare mai che ai lettori piace che gli si descriva la vita dei "ricchi" ).
Che dire? Non salvo niente di questo romanzo: non la trama, non i personaggi, soprattutto non lo stile. Siamo lontanissimi da quella che può definirsi Letteratura e siamo lontanissimi da Tolstoj.
Forse, l’unico merito che riconosco a Suite Francese è quello di essere l’esempio tangibile di quanto riassunto in un vecchio proverbio: non c’è ladro peggiore di un cattivo libro!