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Sui navigli con Pelé
Roberto Farina
LIBRI E ALTRE STORIE
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14/06/2018
Roberto Farina
Sui navigli con Pelé
Diciamolo subito per i più che magari non sanno neanche cosa sia la Ligera: non è un libro di calcio. Dunque, riprendiamo da qui.

Giancarlo Peroncini in arte si faceva chiamare Pelé perché da bambino sapeva giocare bene a calcio, ovviamente. Tutti quelli della ligera avevano un soprannome: serviva per sentirsi al sicuro dalla polizia, ma era anche un bel segno di fratellanza, di appartenenza. E poi questa ligera: questa criminalità spicciola di quartiere e di popolo, che odiava la violenza, che rubava per fame e che alla fine faceva festa nelle osterie. Questa è solo la punta della punta di un iceberg di racconti e di particolari che, tra le tante cose, ha segnato una grandissima epoca di canzoni e di teatro, comico più che altro. Una comicità che però ha dentro l’amaro di una vita mai troppo facile. Abbiamo oltrepassato la seconda grande guerra. Siamo a Milano, quando Milano era un “porto” importante, quando Milano non era la metropoli europea di oggi, quando a Milano c’erano osterie per radunarsi la sera a consumare la vita dentro i bicchieri di vino. E poi le canzoni. Si cantava questa vita della ligera, si prendeva in giro la fame, ci si vantava di furti buoni per bere altro vino, si rendevano immortali i personaggi più strani e alla fine si piangeva disperati dei tradimenti d’amore. Si cantava ogni cosa e ogni cosa era buona per uno spunto vincente nei teatri importanti, quando Cochi e Renato poi divennero famosi, quando Jannacci poi divenne famoso… quando poi anche Nanni Svampa, Didi Matinaz, i Gufi divennero famosi. E quanto altro ancora c’è da raccontare!!!

Ho avuto la fortuna di perdermi nella lettura di questo meraviglioso libro partigiano, mi piace definirlo così: si intitola “La ballata del Pelé, una storia di osteria, malavita e nostalgia”.

Roberto Farina incontra Giancarlo Peroncini, il Pelè appunto, e ha trascritto i suoi racconti, le sue memorie di quella vita lì, di quell’epoca ormai così lontana da aver perduto per strada tantissimi dei suoi protagonisti. Pelè è uno dei pochi purtroppo. E allora eccolo, un libro leggero, divertente, scanzonato com’era scanzonata la vita e la compagnia, il vino e le canzoni, un racconto trascritto come fosse davvero narrato da voce reale, ora, qui davanti agli occhi che corrono tra le pagine che un poco sembrano umide di lacrime di nostalgia. Un libro partigiano come dicevo: perché letture come queste servono per restituire al passato e alla vita trascorsa il valore di ciò che oggi stiamo pian piano perdendo a colpi di omologazione televisiva. Una vera lotta, fatta di umanità e non di violenza, fatta di anima, arte ed espressione leggera e non di armi, non di soldi o di complotti mediatici. Una vita che sto riscoprendo attraverso moltissimi dischi.

Un grazie a Roberto Farina per avercela immortalata in questo bellissimo libro.

Per chiudere segnalo anche che l’ultima pagina nasconde un CD: il Pelè dal vivo armato di tollofono, accompagnato alla chitarra e alla voce da Nadir Scartabelli, hanno rievocato quelle canzoni ospiti, ovviamente diremo noi, del Ligera di via Padova a Milano, grazie soprattutto al supporto di Riccardo Bernini.

Buon viaggio a ritroso nel tempo... a quando bastava un bicchiere di vino per far bella la vita.

Il racconto di un’epoca che oggi viviamo solo e soltanto per osmosi per eredità, grazie a quelle voci che sopravvivono in un certo modo al tempo, alle manipolazioni della memoria, alla comodità del futuro. A lei che spesso ha curato “retrospettive” culturali del passato, storie partigiane, storie di Paz e di controcultura, nell’attualità intellettuale di oggi (e mi riferisco principalmente alle canzoni) chiedo: esiste qualcosa di attuale che merita di venir raccontato un giorno?

C’è sempre qualcosa che merita di essere raccontato. Raccontare è un vecchio gioco collaudato, il più vecchio del mondo. Raccontare serve a creare un tessuto connettivo tra la gente. Più si racconta, meglio è. Chiaramente, bisogna avere qualcosa da dire.

Restando proprio su questo tema, prendo spunto da un bellissimo libro che si intitola “Gli imperdonabili” di Cristina Campo, di quando lei analizza l’arte del racconto, l’incontro tra un vecchio ed un bambino, di questo dialogo come momento spirituale in cui tramandare, consegnare, restituire. Dunque, penso: vista l’enorme facilità con cui oggi siamo capaci di memorizzare la vita che attraversiamo, non pensa anche lei che non esista più quel bisogno spirituale e culturale di saper raccontare qualcosa a chi verrà domani?

Oggi è facile memorizzare la vita, ma raccontarla è un’altra cosa. Ogni incontro, come quello tra un vecchio e un bambino, avviene attraverso la condivisione di una storia, cioè attraverso una relazione. Memorizzare non basta a creare una relazione. Memorizzare è tramandare, ma archiviare. Se non interviene un racconto a rivitalizzare l’archivio, rischiamo di ritrovarci con dati svuotati di significato.

Che ricchezza quindi stiamo perdendo?

La ricchezza dell’approfondimento e delle sfumature. Purtroppo, l’oblio macina a fondo e ogni racconto non è che la punta dell’iceberg di tutto ciò che è stato.

La Ligera. Citiamola. Oggi quasi la si rimpiange. Che poesia c’era anche in un furto?

La poesia che nasceva dall’unione tra il ladro e il “dannato”, cioè il derubato. L’uno e l’altro condividevano la stessa storia. La ligera odiava la violenza, perché ne aveva vista fin troppa. I ladri erano poveri e quando si ritrovavano per le mani qualcosa, non lo capitalizzavano come fa la criminalità organizzata, ma se lo bevevano. E ce n’era per tutti, anche per il derubato. La gente proteggeva i ladri. Il ladro correva con in tasca le salsicce, il poliziotto lo inseguiva con in mano il randello. Per chi vedeva la scena, non era difficile scegliere da che parte stare.

Ma poi, come sempre accade nelle trasposizioni di racconti e di ricordi, il buon Pelé si è riconosciuto in queste pagine? E quanta altra vita è rimasta fuori, per spazio, per coerenza o per qualsiasi altro motivo?

Lui si è riconosciuto, sì. È contento. Il racconto si è formato assemblando i ricordi del Pelé con quelli di altri testimoni dell’epoca, che erano suoi amici. Tutte voci dello stesso coro. Anche quello che non mi ha raccontato lui, è come se me lo avesse raccontato lui. Ma, come dicevo prima, è la punta dell’iceberg. Anzi, la punta della punta della punta. Ma tant’è, che ci vuoi fare?

Parlando di canzone d’autore (e qui da Jannacci a Svampa, la lista è assai lunga): secondo lei quanto c’è di quel modo di raccontare la vita in musica nelle produzioni dei ragazzi di oggi? In qualche misura è sopravvissuta quella scuola milanese della canzone?

In quelle canzoni c’erano romanticismo, realismo, umorismo. Non so quanto di tutto ciò sia ancora vivo nella canzone odierna. Di umorismo, soprattutto, non ne vedo. Jannacci o Valdi, per fare due nomi, erano dei grandi umoristi, perché ti facevano commuovere e ridere contemporaneamente, mentre ti raccontavano che cosa è la vita. Chi fa una cosa del genere oggi? Quando ho chiesto a Nadir chi potrà portare avanti la tradizione della canzone milanese, mi ha risposto: “Non vedo nessuno dietro di me”.

Il libro contiene anche un bellissimo disco registrato allo Spazio Ligera proprio a Milano. Il pubblico che c’era come si è misurato con quel tempo, con quelle canzoni, con questo libro?

Cantavano tutti, creando qualche problema al tecnico del sono. Moccolavano, gridavano Viva Pelé, brindavano con gran strepito di bicchieri. Dei casinisti. Non c’era modo di calmarli. Molto simpatici.

Tempo fa mi trovavo proprio a pernottare in via A. Sforza. La sfortuna di conoscere questo libro con i suoi tantissimi dettagli solo qualche tempo dopo. Devo tornarci assolutamente anche se io ne avrei soltanto uno sguardo incantato. Credo quindi risulterebbe assai banale e didattico chiederci cosa resta oggi in quella via, di quelle osterie etc. Io però sono curioso di sapere se lei ha chiesto a “Pelé” di visitare assieme quei luoghi. Io sarei curioso di sapere con che occhi guardava quel civico 27 in Via A. Sforza, se in fondo ha mostrato davvero un rimpianto di quelle ricchezze umane o se magari ha tradito una serenità d’aver lasciato al passato quel periodo di sincera difficoltà… 

Ho avuto occasione di passare col Pelé sui Navigli e posso dire che non ha rimpianti. Se riconosce qualcuno (magari il figlio di un vecchio amico) lo saluta con il suo vocione, prospettando magari un futuro incontro tra salame e vino, però poi va oltre, a fare quel che deve fare. Si commuove al ricordo dei vecchi amici, questo sì, ma non ha rimpianti. Pelé è un uomo d’azione, non è un contemplativo. Pelé è un ventenne con i ricordi di un ultrasettantenne.

Quindi vorrei chiudere citando forse uno dei detti più inflazionati di tutti i tempi. Ma direi che mai come in questo caso calzi davvero a pennello. Leggendola ma soprattutto sentendosela raccontare, guardando invece il futuro di oggi in cui le canzoni sono plastificate e quasi prive di vita e di uomini veri, secondo lei ha senso dire si stava meglio quando si stava peggio?

La memoria tende a censurare le cose spiacevoli e a esaltare le piacevoli. Inoltre, alle spalle abbiamo la gioventù e perciò il passato ci sembra sempre migliore del presente. Ma è un’illusione. Comunque, il punto secondo me non è se si stesse meglio ieri. Il punto è: come si stava ieri? Come si sta oggi?  Se non rispondiamo alla prima domanda, non potremo rispondere alla seconda.

Io non rimpiango il passato. Credo che il mondo, spesso oscuramente, tenda verso un miglioramento. Credo che tutti i problemi di oggi, come quelli di ieri, preparino il terreno a una fratellanza universale. Un’umanità con un alto senso dell’essere, i cui unici nemici siano la morte e la necessità. Il prezzo di questo progresso, di epoca in epoca, è multiforme, alto, enorme. L’ingiustizia è nel dimenticare chi questo prezzo l’ha già pagato: le generazioni che ci hanno portato fino a qui. Quanta bellezza nella loro avventura. Quanta bellezza, e quanti insegnamenti. Dimenticare è stupido e odioso. Ricordare è un atto di giustizia, di riparazione. Inoltre, fa vivere più pienamente e può essere molto, molto piacevole.