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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
20/03/2023
Bill Wyman’s Rhythm Kings
Struttin’ Our Stuff
Ecco i Rhythm Kings, il gruppo creato da Wyman dopo l’uscita dai Rolling Stones, “mettere in mostra la propria merce”, come dice il titolo del disco d’esordio. E lo fanno con una base solida di R&B sconfinante nel jazz e uno stuolo di special guest da favola, in primis per l’adeguatezza alla canzone associata. Un’opera riuscitissima, che brilla di luce propria anche dopo più di venticinque anni dalla pubblicazione.

“Erano anni che volevo fare un album come questo. Struttin’ Our Stuff rappresenta senza ombra di dubbio il miglior lavoro della mia carriera e ne sono veramente fiero”.

 

Queste affermazioni estrapolate da un’intervista dell’epoca (1997) per il quotidiano francese Le Figaro incarnano perfettamente il pensiero di uno dei bassisti più famosi al mondo, Bill Wyman, disposto per la sua felicità e sanità mentale a rinunciare a vivere nel milionario transatlantico dei Rolling Stones per rintanarsi in una cambusa profumata degli aromi musicali di una volta: nel suo nuovo regno si annusa il ragtime, si odono i primi vagiti dell’R&B e si ballano il jitterbug, il boogie-woogie. Non mancano un pizzico di rock and roll e bayou blues, sempre con libertà artistica e compositiva come mission primaria.

L’incredibile e massiccio ensemble di special guest e turnisti leggendari, la musa ispiratrice ad alto livello qualitativo per alcuni brani nuovi di pregevole fattura e la rilettura di standard tra gli anni ‘20 e ‘70 rendono imperdibile questa selezione di dodici canzoni, suonate con il cuore grondante lacrime e sangue. Bill non si limita a suonare il basso con la solita precisione e l’incredibile aplomb che lo contraddistingue, si assume infatti anche il compito di cantare come lead vocalist le autografe "Going Crazy Overnight", dal testo spassionatamente nostalgico e "Stuff (Can’t Get Enough)", sarcastica e pungente. In particolare quest’ultima, con il mago dei tamburi Ray Cooper in cattedra, è costruita su un ritmo “Disco” reminiscente dei seventies, resa inebriante dal veterano Frank Mead, il cui sax solo esprime un’eleganza cristallina, e dai fraseggi raffinati del chitarrista Terry Taylor, spesso coautore dei brani insieme a Wyman.

L’inattesa leadership al microfono non si placa con questi due pezzi, difatti in molti altri casi l’ex componente delle pietre rotolanti si presenta al compito affiancato da una delle top singer del Regno Unito, la deliziosa "Beverley Skeete", e l’iniziale "Green River", trascinante cover dei Creedence Clearwater Revival ne è fulgido esempio, seguita dalla coinvolgente "Walking On My Own", impreziosita dalla sei corde del leggendario Albert Lee, con un groove impareggiabile creato dallo storico batterista/percussionista Graham Broad.

La voglia di rock and roll e di guardare senza malinconia, ma piuttosto con gratitudine, ai tempi passati emerge nella straordinaria rilettura di "Melody", una perla degli Stones registrata per Black and Blue (1976), probabilmente uno degli LP più sottovalutati, anche se pregno di buona musica, con composizioni memorabili come "Hey Negrita" e "Memory Hotel". Ebbene "Melody" qui ha un entusiasmo tale da ricordare la verve irrefrenabile dell’istrionico Billy Preston, all’epoca autore non accreditato del brano insieme ai Glimmer Twins. L’organo del mitico Georgie Fame, altro musicista storico coinvolto in questo progetto, picchia come un martello e il camaleontico personaggio si cimenta con successo pure al canto, in coabitazione con la “solita” Skeete. Il tocco finale per rendere unica questa performance lo offre Eric Clapton, dipingendo note vellutate su una ritmica garbata e accattivante.

Blues, swing, jazz e R&B, irrorati da un’abbondante dose di energia, si rincorrono felici durante la sofferta "Bad to Be Alone", ove il piano di Dave Hartley gioca a rimpiattino con le tastiere del mai troppo compianto Gary Brooker, e nella seguente, intensa, "I’m Mad", hit nel 1953 con Willie Mabon, mentre lo standard "Down in the Bottom" di Willie Dixon, famoso per l’interpretazione del vulcanico "Howlin’ Wolf", trova nella voce del noto tastierista Geraint Watkins un porto sicuro, e si colloca nel pieno rispetto della tradizione, con la slide fulminante di Martin Taylor e un tonitruante Geoff Grange all’armonica a tenere alti i contenuti della musica del diavolo.

 

"In Motorvatin’ Mama ho solo provato a catturare l'atmosfera dell'epoca a cui pensavo si adattasse la canzone, sia che si trattasse della fine degli anni ’30, oppure ci si riferisse alla jump music, nel periodo di Fats Waller. Ho pure cercato di usare lo slang locale e il tipo di melodie su cui cantavano i cori. Inoltre mi sono soffermato a pensare diversi tipi di arrangiamenti di fiati. Avere Albert Lee alla chitarra anche per questo pezzo è risultata un’altra cosa fondamentale".

 

Forse il più bel complimento per questa composizione infarcita di allusioni sessuali, giocando con il paragone donna/automobile, e tirata fuori dal geniale cilindro di Wyman, troppo spesso relegato al ruolo di Quiet Man da Jagger e Richards, giunge da Jeff Beck (la sua scomparsa rappresenta una delle tragedie di questo terribile inizio d’anno), il quale stenta a credere che il brano non arrivi direttamente da un secolo fa, tanto sembra profondamente legato a quel frangente. In effetti "Motorvatin’ Mama" è un chiaro omaggio all’hokum blues dei Trenta, momento di massimo splendore di quel particolare genere, infarcito di canzoni “osé”, dai doppi sensi, come "Let Me Play With Your Poodle" di Tampa Red, "Please Warm My Weiner" di Bo Carter o "Bumble Bee" dal repertorio dell’audace Memphis Minnie.

Anche la sfavillante "Jitterbug Boogie" non delude, ancora proveniente dalla penna dell’accoppiata Wyman/Taylor e ben interpretata stavolta da Mike Sanchez, vocalist dei Big Town Playboys, ma ciò che rappresenta il top del disco è, forse, volutamente “relegato” alla fine, per lasciare l’ascoltatore nella voglia, come si diceva una volta, di riavvolgere il nastro e ripartire con l’opera.

"Hole in My Soul", basato su un ipnotico riff di organo e basso in crescendo con piano, batteria e poi fiati al seguito, è un capolavoro pop dalle venature black soul magistralmente cantato, con tanto di virtuosismi scat, da Georgie Fame, e risulta un’affascinante, sensuale rilettura di un singolo dei Preachers pubblicato nel 1965 e prodotto proprio da Wyman. Per rendere ancora più intrigante l’intreccio di questo ripescaggio urge ricordare che un giovanissimo Peter Frampton faceva parte di quella band, che in seguito muterà nome in Moon’s Train. La sorpresa è pure vedere la comparsa in questa raccolta dello storico chitarrista campione d’incassi con Frampton Comes Alive, tuttavia, colpo di scena, non per il pezzo citato, bensì per il seguente, l’ultimo in scaletta. Coincidenze? Comunque sia, il rifacimento del classico di John D. Loudermilk, quella "Tobacco Road" ristudiata e reinventata pure da Johnny Winter all’inizio dei Settanta, è fenomenale. Frampton suona con una scioltezza inenarrabile, è migliorato tantissimo, come un buon vino, con il passare degli anni, inoltre l’ospitata di Paul Carrack per la parte vocale non passa per niente inosservata.

 

"Con i Rhythm Kings non sento la pressione di dover fare album di successo o che vendano molto, né le case discografiche mi prendono a calci nel sedere, rincorrendomi in ogni dove solo per ottenere risultati a livello di numeri. Come gruppo non viviamo nulla di tutto ciò, quindi è solo un piacere farlo. Lo si fa per amore".

 

Si può con certezza dichiarare che Wyman si gode chiaramente l'opportunità di suonare canzoni classiche insieme a brani originali più recenti, scritti nello stile delle epoche musicali che adora, senza nessun’altra remora. Per lui si tratta di un ritorno alla fanciullezza, a quella ingenuità e genuinità persa nell’arco del tempo: l’arte del compromesso non è mai stata il suo forte e le successive pubblicazioni con questa band multiforme, l’intensa attività dal vivo, il proficuo intreccio con altri personaggi del suo calibro disposti a collaborare con l’ensemble sono la potente dimostrazione della giustezza riguardo alla strada intrapresa. Un percorso a ritroso riuscito per merito anche della voglia di rendere più moderni i suoni e i generi che lo hanno sempre ispirato, in modo da tenere sempre accesa la fiamma della musica e dell’arte creativa che vi sta dietro. Rispetto, tradizione e innovazione… ecco l’alchimia magica creata da “questa squadra fluttuante di veterani”, come adora chiamarla lui, il Capitano Bill Wyman.