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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
28/08/2017
Julie Driscoll, Brian Auger & The Trinity
Streetnoise
Lo stupore che ebbi quando lo ascoltai la prima volta si è ripresentato nello stesso modo riascoltandolo adesso, ma sono certo che troverà nuovi adepti in chi considera la musica non soltanto un trastullo o un mero complemento per la suoneria dei telefonini.

Se ad un appassionato medio di rock, in Italia, chiedete quale sia stato il miglior organista di sempre, molto probabilmente vi sentirete rispondere in questo ordine di cose: Keith Emerson, Rick Wakeman, Jon Lord. Su Jon Lord siamo tutti d'accordo, sugli altri due decisamente no, o perlomeno se siete anche appassionati dell'arte circense o dei virtuosismi che in tempo passato appartenevano ai cantanti castrati, è probabile che non possiate fare a meno degli arzigogoli dei due musici citati sopra, con predilezione per Wakeman. E' anche probabile che se provate a fare il nome di Brian Auger ben pochi vi risponderanno in maniera affermativa, magari adducendo il fatto che il nostro era sì un bravo suonatore di Hammond, ma che con il rock aveva ben poco a che fare, e che il suo campo era il jazz. Se provate a rigirare la frittata agli appassionati della musica improvvisata, costoro vi diranno il contrario, affermando che tutto era fuori che un jazzista.

Ecco, se queste cose le avreste chieste nel 1969 - in Italia eh perché altrove l'album fu giudicato per quell'opera d'arte che è - anno di uscita del capolavoro Streetnoise, è probabile che le risposte sarebbero state le stesse, profferite con più vigore da entrambe le parti. In realtà Auger ha suonato qualsiasi cosa gli passasse per la testa, che sia stato jazz, r'n’b, pop, rock, soul, non ponendosi limiti, e in ognuno dei generi ha tirato fuori il massimo delle proprie intuizioni.

Streetnoise quindi. L'album, doppio, quattro canzoni per facciata vinilica, vide la luce quando Auger e i suoi Trinity avevano messo a frutto la collaborazione con la cantante Julie Driscoll (per inciso la migliore cantante bianca Soul di tutti i tempi) in un tempo in cui lo schierarsi nettamente da una parte o dall'altra era prassi comune, sia in politica che in campo musicale. Quindi se eri appassionato di jazz ignoravi i suoi dischi, se eri un rocker duro e puro altrettanto, le vie di mezzo erano poche e mal gliene incorse chi all'epoca provò ad accennare al fatto che Streetnoise fosse un capolavoro. Magari c'era chi constatava che ben pochi brani originali vi fossero inseriti, e qui lo possiamo spiegare con le parole di Auger, il quale affermò che essendo il gruppo sempre in giro a suonare, la decisione di inserire cover di brani che proponevano in concerto fu una logica conseguenza, avendo poco tempo per dedicarsi alla scrittura, ma molto probabilmente ci fu chi non capì la portata di quelle versioni, e tanto meno dei brani originali.

Per esempio, avete mai ascoltato una cover di "Light My Fire" assolutamente superiore alla versione originale? Bene, in questo disco c'è. Come ci sono altrettante cover che superano gli originali, come ad esempio il gospel "Take Me To The Water" di Nina Simone (non crocifiggetemi, per me è così), oppure "Indian Rope Man" di Richie Havens, che anticipa di venti anni l'acid jazz, e una rilettura di "All Blues" di Miles Davis che il nostro dice apprezzò molto. Molto buone anche le versioni di "The Flesh Feilures (Let The Sunshine In)” dal musical Hair - apprezzerà per la prima volta chi dei musical vorrebbe farne terra bruciata - e la rilettura di "Save The Country" di Laura Nyro.

Se il disco si fermasse alle cover, potrebbe già bastare a renderlo un capolavoro; fortunatamente però, ascoltando i brani originali, andiamo oltre. L'iniziale "Tropic Of Capricorn" lascia già intendere come sarà il mood del disco, dove Auger pesta sui tasti dell'Hammond in un pezzo che mischia jazz e prog, "From Vauxhall To Lambeth Bridge" è invece la sorpresa dell'album; scritto dalla Driscoll e suonato dalla stessa con la sola chitarra acustica, è un delicato gioiello di folk intimista, da mandare a memoria per i trastullatori contemporanei di strumenti a corda.

Lo strumentale "Ellis Island" ci mostra invece un Auger mai così ispirato, in un brano che fa dell'improvvisazione non tediosa e fine a se stessa la propria ragion d'essere. Se c'è una canzone però che è la cifra dell'album, e solo per questo basterebbe per essere ricordato nei secoli a venire, questa non può essere che "Czechoslovakia". Ecco, definirla canzone è riduttivo; la si potrebbe descrivere come una sorta di documento in forma sonora di quella che fu la primavera di Praga nel 1968 e della sciagurata invasione da parte dell'esercito sovietico.

In soli sei minuti, l'Hammond di Auger e la voce della Driscoll (autrice del brano) ci accompagnano dentro le speranze di un popolo, da quando prese forma fino alla fine del sogno.  Commovente fino alle lacrime. Lo stupore che ebbi quando lo ascoltai la prima volta si è ripresentato nello stesso modo riascoltandolo adesso, ma sono certo che troverà nuovi adepti in chi considera la musica non soltanto un trastullo o un mero complemento per la suoneria dei telefonini.