Al post-punk mancava un sottogenere noir-pulp. Capiamoci: il filone gotico è stato ampiamente sviscerato nei minimi dettagli dai gruppi dark figli dei Banshees e dei Bauhaus. In questo millennio, però, nessun esponente della categoria ancora aveva provato a mettere da parte il distorsore per collegare la chitarra a un effetto pulito come lo spring, quel riverbero antico come gli amplificatori su cui è stato installato e che ha fatto la fortuna in musica del surf e, sul versante cinematografico, dei film di Tarantino. Un suono inconfondibile e allarmante, una pennata capace di lasciarci solcare le onde del Pacifico come di farci vivere un duello nel far west e, ora, di indurci a pogare come forsennati sotto il palco virtuale e fisico (sempre che si facciano vedere da queste parti) dei Bambara, la prima band ascrivibile a questa categoria e pronta a stravolgere le regole di un mercato dominato dal buonismo facile e accogliente dei suoni fuzz filtrati dall’overdrive.
I Bambara sono due gemelli e un bassista di Athens, Georgia, cresciuti artisticamente a Brooklyn. Annoverano una voce da Nick Cave o, per chi è pratico di queste lande impervie, una versione intonata, tentacolare e suadente di Joe Casey, una chitarra tutt’altro che brit e poco comune per il filone di appartenenza, una scrittura da Leonard Cohen, una sezione ritmica brutale rodata sui più comuni standard del post-punk, pronta a cavalcare sui tamburi e a impennarsi quando c’è da partire al galoppo nei momenti più tirati. Facce poco raccomandabili, approccio da brutti e cattivi, uno sporco terzetto fin troppo trasandato per l’accuratezza con cui suonano la loro visione delle cose.
La capacità dei Bambara di proporre suoni così apparentemente eterogenei come se fosse la cosa più naturale del mondo, usati come sottofondo per una narrazione baritonale, a tratti declamata ma sempre ruvida e diretta, non può che prendere alle viscere e lasciare il segno. Il loro distinto uso della narrativa macabra con il valore aggiunto della surrealtà dà luogo a suggestive incursioni nei bassifondi dell’indie. Partiti nel 2013 con un disco noise - Dreamviolence - che a dargli dell’inascoltabile è fargli un complimento, si inizia a ragionare con il secondo lavoro, “Swarm”, uscito nel 2016. Giunti al quarto album, e sull’onda dello straordinario “Shadow Of Everything” pubblicato un paio di anni fa, la band rilascia un disco come “Stray” e per me il 2020 musicale potrebbe chiudersi qui. I Bambara hanno già vinto tutto. Non chiedo altro.
“Stray” è infatti un pugno nello stomaco, una congiura emotiva efficace per i discepoli del masochismo sonoro, quel popolo che ascolta musica impegnativa con l’obiettivo di stare male perché, davvero, farci piacere un disco non deprimente è una cosa che non ha proprio senso. Quindi perché non calcare sul registro della sofferenza? Perché non usare lo spleen come backdoor per prendere il controllo dell’ansia della gente e dominare il mondo?
E potete sezionare “Stray” sino agli atomi e a tutte le particelle che vi girano intorno senza trovare una vibrazione che infierisca con cattiveria gratuita laddove è già la vita in sé a essere spietata. Un disco in cui non c’è speranza, ha già detto tutto e non ammette contraddittori per mediare una redenzione. Anche perché è la morte a essere protagonista. L’unico ente in grado di dire punto e basta: possiamo andare avanti a parlarne e a scriverne per anni, secoli e millenni ma non c’è un dato di fatto più realisticamente dominante e crudele.
Il paesaggio sonoro dei Bambara è crepuscolare, polveroso, dark-western, smisuratamente violento negli spazi incommensurabili del mistero, una prateria sconfinata e buia dove al posto del coyote regna l’ossessivo lamento della chitarra vibrante. Gli stessi tappeti di tastiere di cui le dieci tracce sono ricche risultano la cosa più lontana dall’elettronica possibile. Un fattore imprescindibile nella fotografia di un album altamente cinematografico, la costante coloritura virante verso le tonalità notturne e volta a ristabilire i parametri della fragilità delle cose umane, la parola miseria tatuata sul retro del labbro - sono parole dei Bambara - che ci ricorda il nostro destino ogni volta che sorridiamo allo specchio.
“Stray” è di sicuro un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo. La parola fine su tutto con il paradosso stesso dei Bambara, al momento una delle band più vitali al mondo con il chiodo fisso dell’andarsene da qui.