Provenienti da Nashville, gli Steel Woods hanno dato da poco alle stampe Straw In The Wind, il loro album di debutto, a proposito del quale si fa già un gran vociare sulle webzine statunitensi, che hanno azzardato i soliti scomodi paragoni con mostri sacri quali Lynyrd Skynyrd, Black Crowes, Allman Brothers e compagnia cantante. Da parte loro, i quattro componenti della band sudista elencano fra le fonti di ispirazione i Led Zeppelin, i Metallica (sic!), Darrell Scott e Jason Isbell. Ora, tolti i Metallica e gli Zep, tutti gli altri artisti citati, più o meno, trovano qualche riferimento nelle tredici canzoni che compongono la scaletta dell’album; tuttavia, a parte il solito gioco di rimandi, ciò conta è la qualità della proposta: gli Steel Woods sono una band esordiente, ma sembrano avere l’esperienza di veterani, calibrano alla perfezione il tiro di ogni canzone, e ci mettono freschezza, potenza e doti compositive di ottimo livello. Straw In The Wind è un disco che combina con armonia sia suoni country che rock, che si esprime prevalentemente attraverso il modulo della ballata elettroacustica, cercando melodie orecchiabili, senza tuttavia rinnegare l’immaginario southern di chitarre al vento e l’inclinazione a una ruvida e alcolica virilità. Si inizia con Axe, e il Sud del Mississippi prende le sembianze di una slide che striscia come un infido mocassino fra le acque torbide del fiume. Il riff di chitarra di Better In Fall (scritta per l’occasione da Brent Cobb) apre la canzone in stile Black Crowes e si sviluppa su un ritornello dal retrogusto post grunge, in cui si potrebbe trovare qualche eco dei Nickelback. Un uno due formidabile e siamo solo all’inizio. Già, perché il disco viaggia alla grande per tutta la sua durata, sciorinando lenti assassini (The Well, dove c’è ancora lo zampino di Cobb), evocando le ombre della notte (il gotico di The Secret), sfoderando irresistibili beat radiofonici (I’m Gonna Love You) e certificando il proprio patrimonio genetico con il pedegree southern della title track (qualcuno ha detto Outlaw?). A fianco dei brani originali (scritti dall’ottimo cantante Wes Bayliss e dal chitarrista Jason Cope), un paio di cover riuscitissime: Uncle Lloyd, trascinante reinterpretazione country rock di un brano di Darrell Scott e, soprattutto, una potente rilettura di Hole In The Sky dei Black Sabbath, bella come l’originale che apriva Sabotage. Un esordio coi fiocchi per una band con un grande futuro avanti a sé. Tanto da farci venir voglia di dire che il rock, più volte dato per morto e sepolto, continua, invece, a essere vivo e vegeto.