Vorrei iniziare con l’invitarvi ad un’analisi che è alla base del mio fascino verso queste letture che coniugano, oltre alla musica, la storia dell’uomo, quello quotidiano di un’Italia che ormai è andata perduta. Nei trattati meravigliosi dell’antropologo Ernesto De Martino si parla spesso di perdita di presenza, una vera e propria ricerca dell’oro, come a dire che con il futuro che abbiamo oggi ogni persona sta perdendo se stessa come individuo… la presenza come essenza di ciò che siamo in quanto individui. E questo diviene manifesto con la perdita di credenze, di ritualità, di unicità; senza cadere troppo nell’esoterico, direi perdita di magia. La completa scomparsa della musica popolare non è che un’ulteriore prova e tassello di questo mosaico che in alcuni casi potremmo definire pericoloso e drammatico. Attraverso la musica popolare c’era l’identità di un popolo, di un clan, di una tradizione, di un intero paese.
Letture come queste restituiscono non solo la ricchezza estetica di un tempo antico di tradizioni e di costumi, ma anche la magia (appunto) di quanto il poco fosse ricchezza. Non vogliamo far rivivere i dinosauri come scrive Piero Dorfles e non voltiamo le spalle al progresso ma sicuramente diamo un occhio critico a chi stiamo diventando e, prima di ogni altra cosa, a tutto quello che stiamo dimenticando. I cantori popolari calabresi a cui Lucio Decaria e Domenico Giordano restituiscono identità e storia - come tanti cantori popolari italiani di tante regioni e nello specifico vi rimando al libro “La Ballate del Pelè” (http://www.loudd.it/dettaglio.asp?id=1731) tanto per citarne uno - nel poco delle difficoltà di un dopoguerra assai difficile hanno seminato e rivitalizzato suoni e costumi che poi nel corso degli anni sono divenuti icone e identificativi non solo di una tradizione, ma anche di tutta la nostra cultura italiana: belle ricchezze da portare a spasso nel mondo. E così partendo dalle contaminazioni dei greci e dalle credenze dei pastori ritroviamo i grandi protagonisti della canzone popolare calabrese, dai grandi Demtrio Airoi e Enzo Laface passando per Mino Reitano e approdando alla protesta sociale e politica di Otello Profazio. E in mezzo gli strumenti della tradizione, i balli, i costumi, i festival… e un occhio interessante al nostro presente, il loro futuro, una disamina forse troppo breve ma assai precisa di quel che significa oggi la canzone popolare calabrese, e non solo aggiungerei io.
Questo libro si intitola “Storie di Cantastorie - i Folksinger a Reggio Calabria e provincia negli anni ’60, ’70 e ’80” edito da Città del Sole Edizioni.
Questa è la mia chiacchierata con Domenico Giordano, ben promossa da Lucio Decaria. Direi che non manca niente. Buon viaggio a spasso nel tempo…
I cantastorie di ieri non assomigliano affatto ai cantastorie di oggi. Almeno questa è la grande impressione che ho osservato un po’ in tutti i generi musicali. Dunque, vi chiedo: secondo voi, avendo conosciuto quelli di ieri, i cantastorie di oggi cosa sono diventati?
Mi piace molto questa domanda, perché mi consente intanto di fare chiarezza sul titolo, in quanto qualcuno ci contesta che il libro non sia proprio sui cantastorie, e in tale contestazione vi è un fondo di verità. Molti fra i personaggi di cui abbiamo parlato non sono in effetti veri e propri cantastorie, alla maniera dei Cicciu Busacca e dei Vito Santangelo. Non lo è per esempio Laface, cui la definizione di folksinger rimane stretta; in effetti ha fatto molte altre cose. È stato interprete di canzone napoletana, di melodia all’italiana. Lo stesso per molti altri di cui abbiamo parlato. Forse lo è il solo Profazio che, per sua stessa ammissione, si sente un erede di quella tradizione, però al medesimo tempo se ne distanzia per il fatto di essere anch’egli tante altre cose. Magari un cantautore, poiché molti testi e musiche di cui è interprete sono suoi. E poi, anche quando mette in musica Buttitta, non vuol essere un semplice divulgatore dell’opera di Buttitta, ma tiene ad aggiungere sempre qualcosa di proprio. Magari un etnomusicologo, uno che fa ricerche sul campo, che raccoglie tutte le versioni possibili di “Vitti ‘na crozza” e al giorno d’oggi ne propone una versione “vera”, aderente allo spirito della canzone.
Allora, tu mi potrai dire, perché “Storie di cantastorie”? Perché intanto abbiamo voluto pensare al “cantastorie” in un aspetto “romantico”, magari ricomprendendo nella categoria personaggi che difficilmente vi si attagliano. Poi forse nel tempo, tu te ne sei accorto, anche la figura del cantastorie ha avuto una forma di evoluzione. Non credo esista più la figura del cantastorie come generalmente la si intende, cioè quella del tale che si presenta in piazza armato di sola chitarra e racconta la tragedia della baronessa di Carini… Noi nel libro parliamo di artisti che già negli anni sessanta/settanta/ottanta del secolo scorso erano in piena attività, ma le vicende di alcuni di essi, specialmente quelli che allora erano più giovani, per esempio i Martino e gli Stellittano, fanno pensare ad uno sviluppo in direzione della canzone d’autore, oppure della musica pop/rock. Perché questi artisti, oltre che musicisti, sono pure fruitori di musica. A certe sollecitazioni, non si può rimanere indifferenti. Per esempio: rimanendo alla Calabria, in particolar modo alla provincia di Reggio, attualmente la canzone folk è fatta di riproposte della tradizione popolare, ma anche di canzoni nuove in dialetto calabrese presentate da cantautori e rockbands…
Interessante vedere come anche nel canto della tradizione esistessero personaggi di protesta e di contestazione politica. Enzo Laface su tutti, potremmo dire. Ma a quel tempo, censure a parte, il canto “di protesta popolare” (se così mi si permette di chiamarlo) produceva effetti concreti nella scena politica e sociale del popolo? Oppure restava semplicemente un caso di censura per i tribunali?
Io nel ’70 ero piccolo, neanche abitavo a Reggio. Ma i partecipanti alla rivolta popolare, di quei fatti hanno conservato memorie indelebili. Alcuni pensano che qualcuno all’epoca abbia strumentalizzato, però altri preferiscono pensare ad una cosa “bipartisan”, nel senso che il malcontento espresso a quei tempi era generale e toccava un po’ tutti i concittadini, indipendentemente dalle collocazioni politiche. Ciò che arrivava di più era senz’altro la protesta per il capoluogo, ma forse in questo popolo vi erano ragioni ben più profonde per scendere in piazza, costruire una barricata e giocare coi lacrimogeni.
I miei genitori erano emigrati in Piemonte, a Reggio tornavano solo per due settimane di vacanze estive, però seguivano con molta partecipazione le vicende della rivolta popolare. Leggevano il “Candido”, anche se non condividevano gli orientamenti politici di Pisanò, e si sentivano offesi per quella che consideravano – a dirne bene – una forma di sottovalutazione… La rivolta ha avuto le sue canzoni e i suoi cantori, uno di questi è stato Enzo Laface, ma non c’è stato soltanto lui. Sono stati pubblicati molti dischi e alcuni di questi, grazie alla popolarità degli interpreti, hanno avuto ampia diffusione anche al di fuori dei confini regionali. Diciamo pure che hanno circolato “parallelamente”, poiché come potrai intendere si trattava di microproduzioni e il fenomeno rimaneva estraneo ai canali ufficiali della discografia.
Bellissima ed importante (anche se solo marginale) la figura di Mino Reitano che sinceramente non conoscevo affatto in questa veste. Quanto è stato sottovalutato questo artista italiano secondo voi?
A noi piacerebbe molto approfondire la figura artistica di Mino Reitano, ma forse in questa sede non potevamo farlo, perché il “ragazzo di Fiumara” è stato un personaggio eclettico e multiforme. Abbiamo pensato non fosse il caso di ricondurlo alla dimensione della musica folk, che obiettivamente reputiamo gli stia troppo stretta… Reitano è piuttosto quello delle “Canzonissime”, delle sfide canore radiotelevisive con Morandi e Ranieri. È stato un grande cantante italiano ed è arrivato lontano, come Laface e Profazio, ma a differenza di questi ultimi non è partito dalla tradizione popolare.
Conoscendone un po’ la storia, molte cose me le ha raccontate il fratello Gegè, non si può non apprezzarne l’ecletticità, parliamo non solo del Reitano musicista e cantautore. Mino è uno che parte dal r’n’r, come Little Tony e Bobby Solo, infatti la sua band si chiamava “Benjamin & His Brothers” e si esibiva ad Amburgo in un locale a pochi passi da quello dove c’erano i Beatles. Poi torna in Italia e canta “Non prego per me” di Mogol/Battisti. Negli anni ha composto ed interpretato canzoni anche molto belle, alcune niente affatto conosciute, nascoste negli album oppure nelle facciate “B” dei quarantacinque giri. Trova pure il tempo di dedicarsi alle canzoni napoletane, o a quelle calabresi. “Calabria mia”, lanciata nei primi anni Settanta, viene tuttora riproposta con grande successo e personalmente l’ho ascoltata qualche settimana fa ad un concerto della mia amica Marinella Rodà.
Purtroppo non tutte le canzoni sono belle canzoni. Mino Reitano ha un repertorio vasto, vale a dire che molti brani li ha azzeccati, penso – fra i più celebri - ad “Una chitarra, cento illusioni” oppure a “L’uomo e la valigia”, e altri forse non li ha centrati. Ma credo sia nell’ordine naturale delle cose, anche per un bravo cantautore. Il fuoco dell’ispirazione non arde perennemente…
Sfruttando il vostro libro sempre come un ponte tra ieri e oggi vi chiedo: perché secondo voi è sparita anche la protesta nella canzone? O per meglio dire, ripensando a quando il popolo si univa attorno alla canzone, che significava anche costumi, tradizioni, strumenti, danze e quant’altro: è la protesta che manca oggi oppure è un certo modo di sentirsi popolo a mancare totalmente?
Non vorrei dire “probabilmente la seconda che hai detto”, ma sarei tentato. Forse la protesta manca per la ragione che è il popolo ad essere cambiato. Se io, utente medio, stasera vado in piazza per ascoltare un folksinger, spesso ci vado per ascoltare un po’ di musica evasiva e pure – se ne sono capace - per ballare la tarantella o la pizzica.
Negli anni Settanta c’erano altre cose, sembravamo un po’ tutti i personaggi dell’opera di Pellizza da Volpedo. Se vogliamo pure negli anni Ottanta… C’erano le “Feste dell’Unità”, ma non solo quelle. Si partecipava a rassegne in cui, fra un concerto di musica e l’altro, generalmente di musica bella e neanche tanto evasiva, t’incuriosiva uno stand e incontravi una ragazza che ti parlava di qualche nazione del Centro America dove era in atto una rivoluzione per destituire un governo filo-USA.
Io oggi non mi sento un utente medio, magari vado in piazza per ascoltare un cantante o un gruppo che hanno un buon testo da propormi. Perciò forse non sarò rappresentativo della tendenza attuale e non farò parte di questo popolo, che senz’altro esiste. Io il popolo me lo raffiguro un po’ come è dipinto nel quadro di Pellizza, cioè un insieme di uomini e donne in marcia verso un obiettivo. Però bisogna vedere quale è l’obiettivo…
Nel ’77 gli studenti scendevano in piazza contro i carrarmati di Cossiga. Oggi scriviamo sui social. Ho paura che manchi proprio la reazione nel popolo che stiamo diventando, non è così?
Da un certo punto di vista, i ragazzi di oggi li trovo più fortunati rispetto a noi degli anni settanta/ottanta. Ai tempi nostri l’informazione arrivava soltanto attraverso la radio e la televisione, con l’impressione che giungesse tardi, anche se il fatto era accaduto pochi minuti prima. Adesso, pure attraverso i social, vieni informato più velocemente, in maniera immediata.
Io non amo granché i social, che tuttavia uso, poiché hanno una loro utilità. Poi proprio dai social, dal tipo di comunicazione che vi si esprime, secondo me emerge la vera differenza fra noi (diciamo) del passato e loro (diciamo) del presente. Io ho la sensazione che una volta gli obiettivi che un popolo si proponeva fossero più grandi, penso ai fatti del ’77 ma pure ai giovani che negli anni Sessanta contestavano i loro genitori e volevano cambiare il mondo, mentre adesso le persone sembrano concentrate maggiormente sul proprio orticello.
Oggi siamo più individualisti, chissà forse lo eravamo anche prima senza darlo a vedere, però il nostro individualismo lo esprimevamo in una maniera differente. Magari discorrendo all’interno di un gruppo, che frequentavamo per motivi “abietti”, del genere “trovare la fidanzata”. L’utente medio del social è ben rappresentato dal personaggio di Crozza, vale a dire uno che dialoga solo con tastiera e monitor, una specie di rivoluzionario da cameretta. In fondo è innocuo, è solo e non può fare paura a nessuno. Per tornare al discorso sul popolo che facevamo prima, probabilmente saremmo anche un popolo, in quanto insieme di individualità che vanno comunque ricercando qualcosa, ma quale è l’oggetto della nostra ricerca?
Prima il mondo della radio era anch’esso - come dire - popolare? Ovvero, la radio era uno strumento del popolo come lo erano le canzoni della tradizione o era, come succede oggi in modo sfacciato, uno strumento di business per il mercato discografico?
Negli anni Settanta c’erano legami abbastanza stretti fra emittenti private e musica popolare, così come fra quest’ultima e radiofonia di stato. Mi vengono in mente le trasmissioni del terzo canale RAI, programmi come “Un certo discorso”, che lasciavano ampio spazio a questo genere musicale. Uno dei migliori dj che io abbia mai ascoltato, e che mi fa piacere qui ricordare, Robertino Arnaldi di “Radio Monte Carlo”, oltre che cantautore e folksinger “in proprio” era anche un grande appassionato di musica folk e a quest’ultima dedicava intere trasmissioni. Pure nelle radio libere, ai tempi in cui erano “libere veramente”, vi era molto interesse da parte degli speakers e del pubblico. La radio libera era un palcoscenico naturale per cantanti e complessi folk, visto che le produzioni fonografiche erano perlopiù destinate ad una clientela locale. C’era la sinergia che tu stesso hai intuito.
Al giorno d’oggi, sono d’accordo con te, le cose sono cambiate in peggio. La “radio libera” è una razza in via di estinzione e non è un segreto che i networks, dal punto di vista musicale, facciano scelte “obbligate” dalla discografia. Raramente mi capita di ascoltare, nelle emittenti private, il programma di musica popolare, però a onor del vero qualche caso isolato ancora esiste.
Per certi versi c’è da rimanere stupiti, considerando il fatto che realizzare un cd nel 2018 è molto più semplice di quanto fosse pubblicare un vinile nel 1977. Gente che una volta non sarebbe mai riuscita a fare un disco, quando il più delle volte l’interlocutore obbligato era una potente casa discografica italiana come Fonit Cetra o addirittura una multinazionale come RCA, a meno di non volersi accontentare di una musicassetta e di una dimensione strettamente locale, oggi il suo bel cd può produrlo in proprio con pochi soldi. Invece tutto questo materiale passa inosservato e i networks non lo degnano di alcuna attenzione.
Un tempo i media insegnavano, istruivano il gusto, ci rendevano cultura. Oggi vendono quel che va di moda. Perché secondo te la gente ha smesso di ricercare cultura e non la smette con queste radio di plastica che invece fanno milioni di ascolti?
Secondo me viviamo un’epoca in cui c’è tanto di tutto, però questo tanto, molte volte, neanche lo conosciamo. L’offerta supera di gran lunga la domanda e quest’ultima può essere soddisfatta da molti strumenti diversi. Questa grande offerta, per esempio di canali radiotelevisivi oppure di materiali disponibili al proprio pc tramite internet, se ha creato un potenziale palcoscenico per prodotti musicali di ogni genere, ha finito pure per produrre disaffezione, disorientamento.
Io lo so che di quell’artista che mi piacerebbe conoscere meglio è disponibile un contenuto in YouTube, ma per mera pigrizia o perché mi sto dedicando ad altre cose, quel contenuto non lo approfondisco, mi riservo di farlo più tardi e poi non lo faccio. Perciò forse la colpa è anche un po’ mia. So che da quell’esperienza può derivare una crescita culturale, ma volontariamente me ne privo. Invece i networks, che esistono e prosperano, sono assolutamente d’accordo, te li becchi anche se non vuoi farlo, perché mentre stai guidando accendi la radio e un simpatico dj ti propina gli imperativi musicali del momento.
Ora io non so quale potrebbe essere la ricetta per uscire da questa impasse, che dipende da noi pubblico (-) e da loro networks (+), quindi forse entrambi dovremmo cambiare il nostro atteggiamento, però di una cosa sono sicuro. Gli ascolti saranno anche tanti, ma non sono costanti. Vale a dire che, almeno questo è ciò che mi capita quando ascolto la radio, non riesco mai a rimanere per troppo tempo ancorato alla stessa stazione e cambio continuamente la frequenza. Quindi in genere la musica non è di mio gradimento, anche se le multinazionali del disco fanno di tutto per farmela piacere.
Ho appena acquistato “Il brigante Musolino” di Otello Profazio. Dopo tanti anni da partigiano della canzone popolare, oggi che uomo e che artista avete ritrovato incontrandolo? Ho l’immagine di uno di quei soldati che non leveranno mai la divisa e non lasceranno mai il fucile scarico.
Profazio l’abbiamo incontrato nel febbraio del 2015 e l’anno dopo l’hanno insignito del “Premio Tenco”. È una cosa che ci gratifica molto, probabilmente gli abbiamo portato fortuna. Almeno ci piace pensarlo. Il “Tenco” è prestigioso ma forse, come ogni tanto capita a quanti l’organizzano, il riconoscimento è arrivato tardi. L’attività artistica di Otello, che era già molto conosciuto negli anni Sessanta e Settanta, è continuata fino ad ora con immutato successo nelle piazze e nei locali d’Italia, ed anche all’estero. In Canada, Australia, Sudamerica. Oggi la sua arte la puoi apprezzare dappertutto, anche negli atenei universitari e nelle chiese, lui da solo e la sua chitarra, e questo è forse un tratto che un po’ l’avvicina ai vecchi cantastorie. Con Mino Reitano condivide invece l’ecletticità, perché di cose diverse ne ha fatte tante anche lui. Penso ai libri che ha scritto, alle presentazioni televisive, alle collaborazioni giornalistiche.
Otello è uno che canta per la gente, e potrebbe fare anche più di ciò che fa attualmente. Però le considerazioni che abbiamo espresso prima, quelle sulle radio “di plastica” e sull’informazione musicale (diciamo) mediata, sono giustissime e calzanti. Negli anni Settanta Profazio funzionava alla grande, i suoi dischi li produceva un’importante etichetta discografica, i passaggi radiotelevisivi erano all’ordine del giorno. Adesso pure funziona alla grande, un po’ perché è un artista dal quale non si può prescindere, un po’ perché è sempre rimasto attivo, un po’ perché adesso c’è la rete e certi contenuti sono facilmente accessibili.
Di sicuro non avrebbe necessità di TV, e neanche della multinazionale che realizza il video o impone il passaggio radio, tanto lo conoscono lo stesso. Però molte volte mi chiedo come mai ad un personaggio di così elevato spessore, con un tale background e con le potenzialità artistiche che continua ad esprimere, una televisione nazionale non offra una ribalta di un certo tipo. Forse è il discorso sulla cultura che facevamo prima, personalmente ritengo vi sia molta più cultura in una puntata qualsiasi di “Adesso Musica” che nella serata finale di un qualunque talent-show.
Scrivere un simile libro, tramandare ai più giovani una storia che non ritroveremo mai più neanche in forme simili, restituire il valore ai personaggi e alle loro tradizioni, secondo voi che cosa ha prodotto? Che cosa vi aspettate che esca fuori da una semina di questo genere?
Un libro come questo può essere un punto di arrivo, ma anche di partenza. A noi piace pensare che rappresenti davvero una partenza, poiché facendolo ci siamo accorti che, pur limitando il nostro raggio d’azione ad un’area geografica e ad un determinato periodo storico, di fatti e personaggi da raccontare ce ne sarebbero ancora tanti. La materia è molto più vasta, rispetto a quanto trattato, e richiederebbe senz’altro ulteriori approfondimenti. Probabilmente non starebbe a me dirlo, ma sono convinto quantomeno dell’originalità della proposta, in quanto forse per la prima volta viene data alle stampe un’opera in cui i due autori storicizzano l’esperienza artistica di un Enzo Laface, di un Demetrio Aroi… Un’esperienza che di sicuro, così almeno abbiamo valutato, meritava di essere raccontata e noi l’abbiamo fatto. Senza voler dare per forza un taglio di tipo enciclopedico, cioè scrivere una specie di riassunto delle vicende di tutti i folksingers calabresi.
Vorrei raccontarti un episodio che mi appare significativo: a Lucio è capitato di incontrare il capo di un importante gruppo folklorico della provincia di Reggio Calabria e di accennargli all’esperienza del libro. Si trattava di un ensemble “storico”, una formazione “di lungo corso”. Questo signore avrebbe potuto senz’altro fornire un valido contributo alle nostre ricostruzioni, tuttavia l’opera era già stata consegnata all’editore e ritirarla avrebbe comportato interrompere un processo già di per sé lungo e laborioso, peraltro giunto ormai in dirittura d’arrivo. Chi ha pubblicato un libro sa a cosa mi riferisco, ai molti “stop and go” di cui si sostanzia la vicenda di una pubblicazione editoriale, come pure sa della necessità quasi fisiologica dell’autore di mettere un punto e dare finalmente una conclusione al proprio lavoro.
Così molto a malincuore abbiamo dovuto rinunciare all’apporto, ma non è detto che in un futuro certe tematiche – io e Lucio, e quanti con noi vorranno collaborare – non le si possa riprendere.
Be’, permettetemi di chiudere approfittando di voi ora per attingere a piene mani dalla vostra esperienza. Alle nuove generazioni che celebrano progetti come Young Signorino con milioni di consensi, dall’alto della vostra esperienza che cosa vi sentireste di dire se vi chiedessi un messaggio che sia di riflessione?
Davvero Young Signorino è uno degli imperativi musicali del momento? Confesso che non lo conoscevo affatto, forse sono troppo legato al passato, ma proprio perché l’hai citato sono andato a cercarlo su YT e non stento a credere che il tizio possa piacere ai giovani. È probabile che vi si identifichino, d’altra parte negli anni ottanta andavano alla grande i Righeira o il Jovanotti di “Gimme five”… Io personalmente mi sono sempre identificato in altro genere di artisti, che ne so un Edoardo De Angelis o un Tito Schipa Jr…
In effetti l’unica cosa che mi è piaciuta di Young Signorino, sarebbe meglio dire “non mi è dispiaciuta”, è la cover di “Mmh ha ha ha” realizzata da Dolcenera. Che fra l’altro, a mio parere, lo abbellisce alquanto e forse gli rende più merito di quel che ha…