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REVIEWSLE RECENSIONI
13/12/2023
Baroness
Stone
Giunti al sesto album, i Baroness continuano a consolidare il loro sound, mischiando stoner, sludge, prog, folk e psichedelia. Magari non sarà un capolavoro come “Blue Record” e “Purple”, ma “Stone” è un solidissimo album (proprio come il nome che porta) che si rivela ascolto dopo ascolto.

Come gran parte dei dischi che ancora oggi esce, Stone è nato durante la pandemia. In quei mesi di forzato isolamento, i Baroness (il cantante e chitarrista John Dyer Baizley, il bassista Nick Jost, il batterista Sebastian Thomson e la chitarrista Gina Gleason) avevano sviluppato una routine: ogni lunedì sera si incontravano su Zoom e si scambiavano riff e abbozzi canzoni. Nel giro di poco tempo avevano accumulato una trentina di tracce, che hanno iniziato a registrare tutti assieme nel novembre del 2020 in un Airbnb convertito a studio a Barryville, nello stato di New York. Nel corso dei due anni seguenti, in mezzo a una lunga serie di tour con Kvelertak, Mastodon e Lamb of God, la band è riuscita a concludere finalmente i lavori, annunciando a fine 2022 che Stone sarebbe uscito l’anno successivo.

Formatisi a Savannah, in Georgia, nel 2003 (e conoscendo nel frattempo numerosi cambi di formazione, tanto che questa è la prima volta che gli stessi musicisti sono presenti in due album consecutivi) nel corso degli anni i Baroness hanno toccato diversi generi musicali, riuscendo oggi a proporre un interessante ibrido sonoro, dove sludge e stoner si amalgamano sapientemente con prog, folk e psichedelia.

Una dimostrazione di questo eclettismo la troviamo subito in apertura di Stone, sesto album della band, mixato (e si sente!) da Joe Barresi e illustrato come sempre dallo stesso John Dyer. In “Embers”, un beve acquerello acustico, Baizley, Gleason e Jost armonizzano a tre voci, prima che la band si trasformi in un rullo compressore prog metal nella successiva “Last Word”, travolgendo tutto quello che trova davanti prima di concludere la sua corsa con un incandescente assolo di Gina.

 

Senza possedere l’ambizione di lavori come Yellow and Green e Gold & Gray, non a caso album doppi, Stone cerca di condensare in poco più di tre quarti d’ora (come la band aveva tentato di fare nel 2015 in Purple) tutte le anime dei Baroness. Ecco quindi che nelle tracce successive assistiamo a una piacevole lotta tra il lato più heavy del combo georgiano (vedi alla voce “Beneath the Rose” e “Choir”) con quello più soft, rappresentato dall’interludio “The Dirge”. Con “Anodyne” e “Shine” la band torna a macinare riff minacciosi, prima che due pezzi heavy prog come “Magnolia” e “Under the Weel” facciano intraprendere all’ascoltatore un bel viaggi sonoro dall’alto tasso di psichedelia.

Stone si chiude sulle note di “Under the Wheel”, un pezzo acustico dove i Broness vengono visitati dallo spettro dei Grateful Dead di Workingman’s Dead e American Beauty. È il finale perfetto per quello che forse non è ascrivibile tra i capolavori della band, ma che si rivela comunque un solido album come il nome che porta (tra l’altro, è il primo che spezza la tradizione cromatica che fin qui contraddistingueva i titoli dei dischi dei Baroness), capace di crescere ascolto dopo ascolto.