L’accoppiata Morrissey/Marr ha prodotto alcune della pagine più importanti del pop rock inglese, creando un suono che ha fatto scuola e generato schiere di proseliti e imitatori. Detta in soldoni (non è questa la sede per approfondire), la premiata ditta era in grado di imbastire impianti melodici irresistibili (l’inarrivabile tocco della chitarra di Marr), su cui la voce monocorde e salmodiante di Morrissey declinava testi profondi, colti, militanti, che scartavano l’ovvio e la banalità, per tratteggiare con acume e anticonformista lucidità la società britannica nel decennio buio della macelleria sociale di Margareth Thatcher.
Tra le tante, grandi canzoni pubblicate dagli Smiths in cinque anni di carriera, Still Ill rappresenta uno dei vertici del songwriting di Morrissey, che parte dal privato della propria omosessualità e dei propri sentimenti, per fare un punto, attraverso il filtro della nostalgia, sulla difficile situazione in cui versa il proprio paese.
Scritta dal chitarrista e dal cantante, inserita nel folgorante e omonimo album d’esordio uscito nel febbraio del 1984, e poi, nuovamente, nella compilation Hatful Of Hollow, pubblicata nel novembre dello stesso anno, Still Ill racconta lo stato d’animo di chi si trova a vivere in un mondo che lo respinge, un mondo di cui non comprende più le dinamiche, un mondo il cui presente è ostile e la cui prospettiva verso il futuro è gretta e utilitarista.
La sintesi fra l’intimo dei propri sentimenti e il pubblico dell’analisi politica trova equilibrio in versi lucidi e toccanti, tra immagini poetiche e un mordace j’accuse alla società del tempo. Il tema centrale è quello della nostalgia, il desiderio di fare retromarcia, e trovare nel passato un’Inghilterra più umana, aperta, compassionevole.
L’incipit, in tal senso, è fulminante: “I decree today that life, Is simply taking and not giving, England is mine, it owes me a living “. La presa di coscienza è definitiva (I Decree) e non c’è appello, c’è, invece, l’amarezza per i fallimenti politici e sociali di un paese che sa solo prendere senza restituire alcunchè. L’inghilterra è mia e mi deve una vita, quella vita che le politiche della Thatcher stanno rendendo impossibile, non solo agli ultimi e alle classi sociali più deboli, ma anche a coloro, che come Morrissey (tema questo ricorrente in tante liriche del cantante) vive con difficoltà la propria condizione di omosessuale.
Morrissey è solo in una società che lo mette alla berlina o che nel migliore dei casi è totalmente indifferente: “Chiedimi perché”, canta Morrissey nella seconda strofa, “e io ti sputerò in un occhio”. Come a dire: se non lo sai, se non capisci perché l’Inghilterra, a me, a te, a tutti, deve una vita, allora sei un indifferente, a cui non devo alcun rispetto.
Lo sguardo sul proprio paese e sul presente è arreso, la constatazione del fallimento è totale, la nostalgia per il passato invasiva. “Ma non possiamo più aggrapparci ai vecchi sogni, No, non possiamo aggrapparci a quei sogni”: tutto è finito, il mondo e la società hanno preso una direzione e non si torna indietro.
Un ulteriore riferimento sociale lo si trova nel verso: “And if you must, go to work tomorrow Well…For there are brighter sides to life, And I should know, because I've seen them, But not very often”. Con la consueta arguzia, Morrissey punta il dito su un’umanità che vive costretta in un circolo vizioso, in cui ciò che conta è il lavoro, e non si accorge che ci sono aspetti più luminosi nella vita, che il cantante ha già vissuto, anche se non troppo spesso. Era l’amore a salvarci l’anima, ma adesso, in questi tempi bui, anche il più sublime dei sentimenti ha perso il suo slancio e la sua naturalezza. Lo racconta Morrissey, con l’immagine più toccante del brano: “Ci siamo baciati sotto il ponte di ferro, E anche se ho finito con le labbra doloranti, Semplicemente non era più come ai vecchi tempi, No, non era come quei giorni. Sono ancora malato?” E’ l’anima ad essere malata, a creare uno spaesamento interiore, a mettere in dubbio ciò che davvero siamo, a perderci in un labirinto di domande, alle quali non sappiamo dare risposta: “Does the body rule the mind Or does the mind rule the body? I don't know”.
Still Ill è una canzone nostalgica e cupa, un’amara riflessione sul presente che ferisce e il passato che se n’è andato per sempre. Non c’è un briciolo di speranza, solo un’ineluttabile presa di coscienza di una società morente. Eppure, nonostante il mood depresso del tema affrontato, la canzone possiede uno slancio appassionato e un andamento scattante grazie al clamoroso riff della chitarra di Marr e all’intricata linea di basso di Andy Rourke, qui in una delle sue migliori performance di sempre.
Il brano resta, a tutt’oggi, uno dei più amati degli Smiths, pur avendo perso, perché ormai decontestualizzata, la sua forza innodica, quella capacità, cioè, di fare proprie le istanze di una gioventù britannica disamorata, e convogliare, con empatia, un malessere, ai tempi, diffuso, soprattutto nelle quelle classi meno abbienti del paese.