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REVIEWSLE RECENSIONI
Stereoscope
Marty O’Reilly & The Old Soul Orchestra
2018  (Randm Records)
ALTERNATIVE
9/10
all REVIEWS
17/03/2018
Marty O’Reilly & The Old Soul Orchestra
Stereoscope
Approcciarsi a questa scaletta è come addentrarsi in una selva lussureggiante, il cui intrico è dato da imprevedibili arrangiamenti e da uno straniante meltin’ pop di generi in cui confluiscono folk, blues, psichedelia, rock e jazz in un’unica conturbante forza espressiva, che gli anglosassoni chiamerebbero soulfulness

Marty O’Reilly e la sua Old Soul Orchestra sono talmente bravi e questo disco è talmente bello, che bisognerebbe decretarne l’ascolto per legge, urbi et orbi. Invece, ci troviamo di fronte al classico artista di nicchia, da noi, peraltro, praticamente sconosciuto, che in patria si sta conquistando lentamente l’attenzione della critica, grazie alla qualità della sua proposta.

La verità è che Stereoscope (secondo disco in carriera, dopo l’ottimo Preach ‘Em Now del 2015), è un disco tutt’altro che facile, che richiede numerosi ascolti per riuscire ad assimilarlo in tutte le sue sfumature, che sono poi quelle che, nello specifico, fanno la differenza. Il punto di partenza è il roots, in un’accezione più propriamente folk. Chi pensa, però, di trovarsi di fronte al classico disco dal suono americano, rimarrà sconcertato fin dal primo ascolto.

In tal senso, O’Reilly è forse più un artista dalla sensibilità europea, e al linguaggio diretto e ruspante di tanti colleghi che si cimentano con la stessa materia, preferisce eludere o suggestionare l’ascoltatore, blandirlo attraverso trame musicali complesse e ardite, in cui nulla è dato per scontato.

Stereoscope, se mi si concede una metafora pittorica, è un grande trompe l’oil, che trae l’orecchio in inganno, convincendo l’ascoltatore di trovarsi di fronte a ben definite trame armoniche che, poi, dopo poco, evaporano, confluendo in qualcosa di completamente diverso. Approcciarsi a questa scaletta è, quindi, come addentrarsi in una selva lussureggiante, il cui intrico è dato da imprevedibili arrangiamenti e da uno straniante meltin’ pop di generi in cui confluiscono folk, blues, psichedelia, rock e jazz in un’unica conturbante forza espressiva, che gli anglosassoni chiamerebbero soulfulness.

Il tutto è reso ancor più spiazzante dalla voce di O’Reilly, ora morbida, ora arrochita e grintosa, e da un timbro che ricorda un Jeff Buckley che preferisce volare radente il terreno invece che puntare dritto alle stelle.

C’è da dire che avere alle spalle un band come i The Old Soul Orchestra, farebbe la differenza anche con un repertorio di canzoncine pop. Ad accompagnare Marty (che oltre a cantare si cimenta con le chitarre: resofonica, acustica, elettrica), ci sono, infatti, tre musicisti di straordinaria caratura tecnica: Chris Lynch, che trafigge i brani con il suo violino lancinante, Ben Berry, il cui contrabbasso crea architetture puntute e penetranti, e soprattutto Matt Goff, batterista dall’evidente dna jazz, che attraversa la scaletta con il suo drumming sincopato e in controtempo, aprendo vertigini percussive da capogiro.

Se la cifra estetica del disco è di qualità altissima, e l’inclinazione naturale della band è quella di spingere verso l’improvvisazione jammistica, non sono da meno le canzoni, tutte di ottima fattura, tutte attraversate da uno stordente pathos. Non c’è un solo filler o un momento che non valga la pena di essere ricordato, tanto che scegliere un brano al posto di un altro, è come far torto a un’opera la cui forza sta proprio nella sua visione olistica.

Tuttavia, per invogliare ulteriormente all’ascolto, si potrebbe citare l’iniziale Firmament, la cui melodia scivola, come le dita di Marty sul manico della chitarra, verso una coda strumentale funambolica, o i deragliamenti strumentali dell’intricata e bellissima Hard Time Killing Floor, o, infine, Fish In A Rut, saliscendi emozionale fra una trama ritmica ossuta e improvvise esplosioni innescate dai tamburi in controtempo di Goff, mentre la voce di Marty e una dolente melodia riportano in vita le suggestioni di Grace.

E potrei continuare per tutte le restanti otto canzoni, una più bella dell’altra, ma mi fermo qui. Perché, come dicevo, il valore del disco vive nella sua unitarietà, e l’ascolto non può essere in alcun modo frazionato. Qualora, dunque, vi decideste all’acquisto dell’album, mettetevi comodi e ascoltate Stereoscope dall’inizio alla fine, più volte, fino a quando ogni singola nota avrà svelato lo splendore di questa musica che è tutto e il suo contrario, che è free e post, e che, sostanzialmente, risulta inafferrabile, almeno fino a quando non farà parte di voi.