Gli Stereolab di fatto non si sono mai sciolti, anche se è senza dubbio vero che dopo Margerine Eclipse (2004), il primo lavoro dalla scomparsa di Mary Hansen, non è poi successo granché. Se si escludono Fab Four Suture (2006), che era più che altro una raccolta di singoli usciti nei mesi precedenti, e Not Music (2010), una compilation di outtake, possiamo dire che in vent’anni abbiano pubblicato appena due dischi di nuovo materiale; l’ultimo dei quali, Chemical Chords, risale addirittura al 2008.
Di scioglimento, tuttavia, non hanno mai parlato. C’è stato solamente un lungo periodo di pausa, tra il 2009 e il 2019, durante il quale i membri del gruppo si sono dedicati ad altri progetti. Poi, come è ormai consuetudine di questi ultimi anni, è arrivato il momento di riprendere il discorso interrotto. Niente dischi nuovi, però. C’è stato un tour nel 2019, che non ha toccato l’Italia (li avevo visti al Primavera Sound, in quello che mi era sembrato il concerto di un gruppo credibile e nient’affatto arrugginito dagli anni di inattività) e adesso, con la pandemia finalmente (si spera) alle nostre spalle, c’è tempo per un giro più lungo, che nel nostro paese addirittura prevede quattro date, comprese due città normalmente tralasciate dai grandi eventi come Trento e Avellino (nel capoluogo irpino mi sembra però di ricordare ci siano stati anche i Motorpsycho, qualche anno fa).
Ancora una volta non ci sono dischi nuovi da promuovere, bensì solo l’ultimo capitolo di Switched On, la raccolta di singoli, rarità, outtake e versioni alternative che è ormai arrivata al quinto volume (questo si chiama Pulse of the Early Brain e come il precedente si tratta di un doppio).
La data milanese si tiene ai Magazzini Generali e l’affluenza risulterà essere più che positiva, col locale che al momento in cui il gruppo salirà sul palco risulterà bello pieno, pur con un’età media dei presenti piuttosto elevata (è la norma per una band del genere, siamo abituati). È un dato consolante, in questo periodo di crisi, significa che, organizzassero qualcos’altro in futuro, non dovrebbero avere problemi a ripassare di nuovo dalle nostre parti.
Sorvolo sul set di apertura di Julien Gasc, perché è stato davvero poco interessante. Per carità, l’artista francese ha dalla sua un repertorio piacevole (articolato su quattro album, l’ultimo dei quali, Re eff, è uscito a settembre) e alcuni brani sono davvero di buon livello, fondendo sapientemente la grande tradizione transalpina (da Jacques Brel a Serge Gainsbourg) con suggestioni Art Pop dove non mancano elementi chiaramente derivanti dalla musica degli headliner. Il problema è che il concerto è di fatto un karaoke, visto che lui canta con il solo ausilio delle basi. Va bene la crisi, va bene la difficoltà di imbastire un live se non si è nel ruolo dell’artista principale, ma così mi sembra un tantino esagerato. Sarà magari anche un problema mio ma questo tipo di formula proprio non riesce a toccarmi.
Gli Stereolab arrivano alle 21.30 spaccate, nella formazione a cinque che ormai da tempo li contraddistingue, Lætitia Sader e Tim Gane sono in teoria i due elementi attorno ai quali si catalizza l’attenzione del pubblico, ma la verità è che sono tutti lontani da manie di protagonismo e si muovono insieme come se fossero un’unica entità. Il loro è un carisma “operaio”, passateci il termine orripilante: hanno fatto la storia della musica (veramente difficile trovare una band più influente di loro, almeno negli ultimi venticinque anni) ma suonano con un’umiltà che a tratti sembra timidezza, autenticamente sorpresi dalle manifestazioni di affetto che i presenti tributano loro in continuazione.
Ecco, probabilmente la cosa più bella è stata l’atmosfera di questa sera: un piccolo locale pieno di gente in totale sintonia con chi era sul palco, quasi due ore di concerto in cui la musica proposta è stata veramente ascoltata e applaudita, la sensazione di aver ritrovato un vecchio amico, la voglia di stare con lui.
La performance è stata splendida ed era in effetti difficile aspettarsi diversamente: Andy Ramsay è un motore inarrestabile, il suo drumming è il punto di partenza per la costruzione di geometrie semplici ma straordinariamente efficaci, il nucleo melodico sviluppato dalla chitarra di Tim Gane, con le tastiere di Joseph Watson a creare profondità e spesso a lanciare il tema principale, Xavier Munoz Gimera ad accompagnare col suo basso e a fornire quelle seconde voci che nell’era post Hansen non sono più un marchio di fabbrica come in precedenza, ma che ancora oggi comunque fanno un certo effetto. Su Lætitia Sader nulla da dire che non rischi di suonare banale: la voce è quella di sempre, il fascino è immutato, nonostante si presenti sul palco con un vestito che sembra una tovaglia. Anche lei discreta e compassata, ma non serve che faccia chissà che: la sua voce, i suoi pochi tocchi di chitarra o tastiera sono quanto basta per far vivere i brani.
La loro è una musica che vive di reiterazione continua e di pulsazione ritmica, declinata in chiave maggiormente Pop rispetto agli esordi, l’elettronica un po’ in secondo piano ma la componente kraut e quella psichedelica sempre ben presente.
Una setlist corposa, quella di questo tour, che parte dall’accattivante “Neon Beanbag”, con Sader che dà il via allo show suonandone le note di apertura sul suo Synth e si sviluppa attraverso una selezione forse fin troppo telefonata di quelli che sono i brani più famosi del gruppo: vecchi cavalli di battaglia come “Mountain”, “Harmonium”, “Miss Modular” e “Pack Yr Romantic Mind”, accanto ad esecuzioni comunque non del tutto inattese come “Eye of the Volcano” “Laissez-Faire” e “The Free Design”. Mancano pezzi da novanta, suonati nel tour del 2019, come “John Cage Bubblegum” e “Lo Boob Oscillator”, ma è veramente difficile lamentarsi, soprattutto dopo i quasi venti minuti di “Refractions in the Plastic Pulse”, ipnotica suite dove i nostri hanno infilato tutto ciò che li ha resi grandi nel tempo.
È comunque nel finale che arrivano le cose migliori, parlando in termini di mera esecuzione: “Super-Electric” chiude il set principale in maniera prodigiosa, una versione lunghissima, dilatata da improvvisazioni in loop e da improvvise esplosioni chitarristiche; nei bis (che avrebbero dovuto concedere anche se non fosse stato previsto, data la rumorosa insistenza con cui è stato richiesto) è poi arrivata una “French Disko” memorabile, probabilmente tra gli highlight assoluti di questa mia annata concertistica: potente, intensa, sfociata nel finale in un’altrettanto meravigliosa “Simple Headphone Mind”, strumentale lisergica in continuo crescendo, dove i nostri hanno fatto capire come si possa far rimanere la gente a bocca aperta pur suonando sempre le solite quattro note.
Che band pazzesca, gli Stereolab. Non ci abbiamo mai pensato abbastanza, forse, ma è davvero una fortuna che non abbiano mai smesso di suonare. Non sarebbe male se decidessero di incidere canzoni nuove, ma credo che la cosa più importante sia poterseli godere dal vivo ancora per un po’.
Photo credits: Fabio Campetti