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REVIEWSLE RECENSIONI
30/05/2019
Marco Cocci
Steps
Un buon album, questo “Steps”, che ha il suo più grande difetto nell'essere eccessivamente derivativo ma che riuscirà senza dubbio ad appassionare gli amanti di questo tipo di sonorità.

Marco Cocci lo conosciamo più che altro per la sua carriera cinematografica (ha esordito in “Ovosodo” di Virzì ma poi ha lavorato anche con Muccino, prendendo parte a “L'ultimo bacio” e a “Baciami ancora”, oltre che a diverse produzioni per la tv.

Ha però da sempre coltivato un’attività parallela nel mondo della musica e dal 1995 canta e suona nei Malfunk, con cui ha realizzato sei dischi.

Recentemente ha avuto gravi problemi di salute che lo hanno portato vicino alla morte e “Steps” rappresenta in un certo senso il suo modo per dire grazie del fatto di essere ancora qui.

Registrato allo Studio 2 di Padova con la collaborazione di Christopher Bacco e completato a Londra, nei celebri Abbey Road Studios, l'esordio solista dell’artista di Prato vede la partecipazione di una nutrita schiera di ospiti eccellenti, tra i quali si annoverano l'Afterhours Roberto Dell'era, Roberto Angelini, Federico Poggipollini, Durga McBroom (Pink Floyd e David Gilmour), Lino Gitto dei The Winstons e tanti altri.

A dispetto di questa numerosa squadra, il sound del disco è in realtà scarno e minimale, quasi interamente acustico (fanno eccezione solo “Blue Boy” e “Days of Grace”, più ricche a livello sonoro e vagamente psichedeliche nelle atmosfere) e ammantato di una certa malinconia leggera.

Tutta la felicità e la spensieratezza della salute ritrovata vengono fuori poi in brani come “At the Sun” e “Good Day”, composizioni aperte e dalle nette atmosfere Folk.

Per il resto, siamo nel pieno degli anni ‘90, nel lato più soffuso e delicato del Seattle Sound, con una serie di ballate che potrebbero tranquillamente essere uscite dal repertorio di Pearl Jam, Soundgarden e Alice In Chains. Non c’è da meravigliarsi, in effetti: è la musica con cui Marco è cresciuto e quando ha iniziato a scrivere, canzoni come queste erano in vetta alle classifiche. È stato anche curioso (e un po’ triste) leggere che avrebbe dovuto aprire per Chris Cornell durante la data di Torino del suo tour acustico, poi saltata a causa di un'intossicazione alimentare del singer americano. Avrei dovuto esserci anch’io, quella sera e quella cancellazione è una ferita che probabilmente brucerà per sempre.

Ben vengano dunque episodi come “While Everyone”, col suo crescendo emozionale e drammatico, oppure “White Quiet Place”, con le sue riuscite melodie vocali; e ancora, il bozzetto pianistico di “Cry”, la più scura “Trouble”, anch'essa giocata sull'accompagnamento del pianoforte, o “Psychology”, che pur ricordando molto da vicino la “Immortality” dei Pearl Jam riesce lo stesso a risultare convincente.

Non sono male neppure “Sleepless Man”, ballata senza tempo, classicissima o “Last Lost Song”, anch’essa acustica, molto americana nelle sue suggestioni Country Western e anche conclusione ideale per un disco che è non solo un grido d'amore alla vita ma anche un atto di riconoscenza verso tutti gli artisti che lo hanno ispirato.

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