Marco Cocci lo conosciamo più che altro per la sua carriera cinematografica (ha esordito in “Ovosodo” di Virzì ma poi ha lavorato anche con Muccino, prendendo parte a “L'ultimo bacio” e a “Baciami ancora”, oltre che a diverse produzioni per la tv.
Ha però da sempre coltivato un’attività parallela nel mondo della musica e dal 1995 canta e suona nei Malfunk, con cui ha realizzato sei dischi.
Recentemente ha avuto gravi problemi di salute che lo hanno portato vicino alla morte e “Steps” rappresenta in un certo senso il suo modo per dire grazie del fatto di essere ancora qui.
Registrato allo Studio 2 di Padova con la collaborazione di Christopher Bacco e completato a Londra, nei celebri Abbey Road Studios, l'esordio solista dell’artista di Prato vede la partecipazione di una nutrita schiera di ospiti eccellenti, tra i quali si annoverano l'Afterhours Roberto Dell'era, Roberto Angelini, Federico Poggipollini, Durga McBroom (Pink Floyd e David Gilmour), Lino Gitto dei The Winstons e tanti altri.
A dispetto di questa numerosa squadra, il sound del disco è in realtà scarno e minimale, quasi interamente acustico (fanno eccezione solo “Blue Boy” e “Days of Grace”, più ricche a livello sonoro e vagamente psichedeliche nelle atmosfere) e ammantato di una certa malinconia leggera.
Tutta la felicità e la spensieratezza della salute ritrovata vengono fuori poi in brani come “At the Sun” e “Good Day”, composizioni aperte e dalle nette atmosfere Folk.
Per il resto, siamo nel pieno degli anni ‘90, nel lato più soffuso e delicato del Seattle Sound, con una serie di ballate che potrebbero tranquillamente essere uscite dal repertorio di Pearl Jam, Soundgarden e Alice In Chains. Non c’è da meravigliarsi, in effetti: è la musica con cui Marco è cresciuto e quando ha iniziato a scrivere, canzoni come queste erano in vetta alle classifiche. È stato anche curioso (e un po’ triste) leggere che avrebbe dovuto aprire per Chris Cornell durante la data di Torino del suo tour acustico, poi saltata a causa di un'intossicazione alimentare del singer americano. Avrei dovuto esserci anch’io, quella sera e quella cancellazione è una ferita che probabilmente brucerà per sempre.
Ben vengano dunque episodi come “While Everyone”, col suo crescendo emozionale e drammatico, oppure “White Quiet Place”, con le sue riuscite melodie vocali; e ancora, il bozzetto pianistico di “Cry”, la più scura “Trouble”, anch'essa giocata sull'accompagnamento del pianoforte, o “Psychology”, che pur ricordando molto da vicino la “Immortality” dei Pearl Jam riesce lo stesso a risultare convincente.
Non sono male neppure “Sleepless Man”, ballata senza tempo, classicissima o “Last Lost Song”, anch’essa acustica, molto americana nelle sue suggestioni Country Western e anche conclusione ideale per un disco che è non solo un grido d'amore alla vita ma anche un atto di riconoscenza verso tutti gli artisti che lo hanno ispirato.
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