Il country, pur mantenendo una mappa cromosomica immutabile nel tempo, nel corso della storia è stato declinato con accenti diversi: la contrapposizione fra l’Outlaws e Nashville, le commistioni con il rock di settantiana memoria, la cosmic american music di Gram Parsons, la rinascita alt degli anni ’90, le avanguardie progressive e il queer country, che oggi vive un’importante stagione revivalista (Orville Peck).
Nella lunga fila di nomi che mantengono in vita questo genere antico, irrorandolo di nuova linfa vitale, si inserisce anche William Fussell, artista poliedrico con un passato shoegaze e avant pop, che nei giorni scorsi ha debuttato, sotto il moniker Honey Harper, per la Ato Records.
Figlio di un’estetica glitterata che revisiona con un tocco di femminilità, ma senza eccessi, lo stereotipo maschile del cowboy, Fussell pesca a piene mani dalla storia del country (Gram Parsons, Wilco, etc.), filtrandola però attraverso una sensibilità pop e rileggendola insieme agli appunti presi durante la prima parte della carriera.
Le undici canzoni di Starmaker sono, quindi, figlie di un’alchimia sonora che trasfigura la tradizione americana (richiamata costantemente dall’uso della lap steel) attraverso melodie spolverate di zucchero al velo, la cui dolcezza è però attenuata dall’alternarsi di suggestioni melanconiche e nostalgiche.
Nel country fluttuante a mezz’aria di Honey Harper si percepisce l’afflato cosmico di Parsons, echi di psichedelia gentile, la grazia pop e meditabonda della scrittura di Tweedy, gli sfarfallii ipnagogici e il respiro rallentato del risveglio in un’alba punteggiata di cinguettii e barbagli di sole, il soliloquio intimista durante una giornata di pioggia.
Composto insieme alla moglie Alana Pagnuti e registrato nel corso di tre anni tra Francia, Inghilterra (dove il songwriter americano risiede) e Ungheria, Starmaker si apre con il luccichio psichedelico di Green Shadows, ballata folk morbida e trasognata, che schiude con delicatezza le porte sul mondo sonoro di Fussell.
Quel che segue è un viaggio acustico tra soundscapes dai pastelli tenui, contornati da arrangiamenti minimal (e talvolta inaspettati) e sfumati attraverso la voce versatile di Honey Harper, capace al contempo di leggiadria e sprofondi baritonali da crooner.
La sinuosa delicatezza di In Light Of Us, attraversata da echi pop alla Wilco, è il secondo capitolo di una scaletta che non ha cedimenti e che inanella gemme assolute nello spleen cinematico di The Day It Rained Forever, nell’estasi contemplativa di Something Relative (gli archi avvolgenti, la carezzevole lap steel, la perfezione adamantina del ritornello), nelle volute orchestrali della melodrammatica Suzuki Dreams, e nel folk depresso di Vaguely Satisfied, che evapora in un inusuale e inaspettato pattern di flauto.
Delicato e fragile, a tratti struggente, Starmaker intreccia all’ordito country tenui filamenti pop, togliendo (nuovamente) la polvere a un genere che non perde la propria ortodossia di fondo, ma si rigenera attraverso una visione moderna e futuribile.